Quello tra fondazioni bancarie, terzo settore e volontariato è un rapporto sempre più organico e, in molti casi, considerando i tagli effettuati dallo Stato, indispensabile. Un rapporto virtuoso, ben lungi dall’essere assimilabile a una sorta di parastato, in grado di valorizzare e far crescere quelle realtà provenienti dal basso necessarie per rispondere alle esigenze di tutti i cittadini. Pubblichiamo, di seguito, un estratto dell’intervento di Giuseppe Guzzetti (clicca qui per il testo integrale) con il quale è stato inaugurato ufficialmente il XXII Congresso Nazionale delle Fondazioni di Origine Bancaria e delle Casse di Risparmio Spa.



 

In questi anni ci siamo molto battuti per coltivare e affermare in Italia la cultura della sussidiarietà. Ed anche la Carta delle Fondazioni con grande forza rivendica questa terzietà delle Fondazioni rispetto allo stato e al mercato, così come lo è e deve essere per tutto il privato sociale. Una terzietà che è importante e che è difesa dalle stesse organizzazioni del non profit, che numerose hanno firmato un manifesto a sostegno delle Fondazioni, presentato a Roma nei giorni scorsi. Con il terzo settore e il volontariato il rapporto è forte e costruttivo. Hanno avuto modo di conoscerci: di verificare quanto di buono e utile per il Paese possiamo fare insieme. E la Fondazione con il Sud ne è solo l’esempio emblematico.



Le attuali difficoltà, ahimè non solo congiunturali, purtroppo alimentano la tentazione intellettuale di assimilare il ruolo delle organizzazioni del volontariato e del terzo settore – e insieme quello delle Fondazioni che ad esse forniscono un sostegno economico essenziale – a una sorta di parastato, culturalmente distante dalle dinamiche e dai processi di tipo privatistico. Con il risultato di snaturare e corrompere il ruolo di tutto il privato sociale.

Non c’è nulla di più sbagliato, perché la sussidiarietà si basa su un sistema di alleanze per l’interesse generale fra i cittadini, le imprese, i sindacati, la politica e l’amministrazione, ma non comporta la possibilità per i soggetti pubblici di sottrarsi al loro compito istituzionale di operare per la soddisfazione dei diritti e dei bisogni fondamentali della popolazione.



La sussidiarietà che ho in mente è fondata sul pluralismo dei soggetti in campo, con ruoli e responsabilità ben distinti, che siano in condizione di operare non tanto in un’ottica mutualistica che ammortizzi i deficit degli organismi pubblici deputati, quanto di sinergia e capacità di dare valore aggiunto alla qualità della vita. La condizione di base perché la sussidiarietà possa realizzarsi in programmi e azioni concrete è, infatti, la compresenza di più attori, di più competenze, di più funzioni con le relative risorse, che, auspicabilmente, siano capaci di fare rete. 

In un contesto in cui i fondi nazionali per gli interventi sociali hanno perso in un anno (dal 2010 al 2011) il 63% delle risorse stanziate dallo Stato è evidente che quello che viene chiamato secondo welfare, o meglio, welfare di comunità, debba essere valorizzato e meglio definito. Welfare di comunità vuol dire mix di interventi di protezione e di investimenti sociali che prevedono anche un finanziamento non pubblico, proveniente da fondazioni, imprese, assicurazioni, fondi di categoria, organismi del terzo settore. Vuol dire, cioè, interventi finanziati, nell’interesse dei cittadini, da una vasta gamma di attori economici e sociali collegati in reti con un forte ancoraggio territoriale, ma aperti al confronto e alle collaborazioni trans-locali anche di raggio europeo. Ecco, questo è il welfare di comunità che immagino e sul cui schema di fondo abbiamo realizzato molte cose in questi anni.