Come ampiamente preventivato e preventivabile, la Bce ha mantenuto i tassi invariati all’1%: in una fase del genere, il cannone del taglio del benchmark di riferimento è arma strategica da usare in un contesto particolare. Ovvero, se nel mese di giugno il pressing anti-rigorista di Ue, Francia e Bce non riuscirà ad ammansire la linea intransigente della Germania, allora a luglio si taglierà il costo del denaro di un quarto di punto.



Il problema è che, a mio modo di vedere, i due mesi dati da George Soros all’Europa per salvare se stessa e la sua moneta paiono una prospettiva temporale ottimistica. E, di fatto, questa impressione l’ha confermata ieri lo stesso Mario Draghi in conferenza stampa, quando ha ammesso che «la crescita economica dell’area euro rimane debole con un’incertezza aumentata che pesa sulla fiducia» e ha annunciato che almeno fino al 15 gennaio del 2013, la Bce procederà al collocamento di liquidità illimitata alle banche con le aste a breve termine, poiché «il mercato interbancario non sta funzionando». Meglio tardi che mai.



Il problema è che, sempre a mio avviso, la Germania venderà cara la pelle e, piuttosto che giungere a soluzioni di condivisione avversate dai suoi cittadini, potrebbe minacciare l’opt out. La situazione, infatti, è quanto mai irrazionale. L’altra notte Moody’s ha declassato di un gradino sei banche tedesche e una sussidiaria tedesca di un gruppo straniero, mentre ha confermato il rating di un gruppo: tra le banche declassate ci sono le filiali di New York e di Parigi di Commerzbank, la seconda banca della Germania. Inoltre, l’agenzia ha declassato le tre più grandi banche austriache – Erste Bank, Raiffeisen Bank International (Rbi) e Bank Austria, filiale del gruppo italiano Unicredit – a causa della loro esposizione alla crisi finanziaria nei paesi dell’Europa dell’Est. In un comunicato, Moody’s sottolineava che il gruppo Erste Bank è fortemente esposto in Ungheria e Romania, mentre il declassamento di Bank Austria è dovuto alla situazione difficile in cui si trova UniCredit. Tutte cose note da tempo (il mio vecchio articolo allegato come link, lo dimostra): come mai proprio ora il downgrade?



Ma le cattive notizie per Berlino non sono finite: la produzione industriale in Germania è scesa del 2,2% mensile ad aprile, contro un’attesa discesa dell’1,1% e il +2,2% di marzo. La produzione manifatturiera è scesa del 2,4% e quella edilizia del 6%, mentre l’output elettrico avanza del 2,4%. Eppure, ieri mattina la Germania ha collocato titoli a cinque anni per 4 miliardi di euro a nuovi minimi storici, ovvero con un tasso dello 0,41%, rispetto allo 0,56% dell’equivalente asta precedente: l’anno scorso per un’operazione simile, lo Stato tedesco doveva pagare oltre il 2% per finanziarsi sul mercato. Ma come, la Germania è sempre più isolata politicamente, le sue banche vengono declassate, anche la sua economia reale comincia a soffrire, eppure il mondo vuole Bund (oltre a Treasuries e Gilts) a più non posso, quasi a tassi negativi? Eh già, perché altri dati fanno capire che piegare Berlino sarà dura, molto dura. Per tre motivi.

Primo, lo stesso Draghi ieri ha dovuto ammettere che «la Bce monitorerà molto da vicino tutti gli sviluppi ed è pronta ad agire, ma non può risolvere tutti i problemi», sottolineando che «alcuni problemi dell’euro non hanno nulla a che fare con l’azione di Francoforte». Secondo, sempre ieri l’Eurostat ha confermato crescita zero per il Pil dell’eurozona e dell’Ue nel primo trimestre dell’anno. Nello stesso periodo l’Italia ha registrato una flessione del Pil dello 0,8%, il risultato peggiore tra quelli riportati da Eurostat dopo l’Ungheria (-1,3%) e la Repubblica ceca (-1%). Ma i dati Eurostat confermano anche il ruolo trainante svolto dalla Germania: il suo Pil nel primo trimestre del 2012 è cresciuto dello 0,5% rispetto al trimestre precedente e dell’1,2% nei confronti dello stesso periodo del 2011: ovvero, se non c’è stata recessione nel primo trimestre, è grazie all’export tedesco e all’euro debole. Magra consolazione ma un dato di fatto che pesa.

Terzo, tra il 2008 e il 2011 gli Stati europei hanno speso, in aiuti di Stato per le banche in crisi, 4.500 miliardi di euro. Lo ha confermato ieri il commissario Ue per il mercato unico, Michel Barnier. Il quale, ha poi ribadito che «oggi non è possibile ricapitalizzare le banche spagnole con l’aiuto diretto del meccanismo europeo Efsf. Questa è una possibilità che deve essere presa in considerazione seriamente in futuro. Oggi non è possibile». E se sul tema caldo della Spagna, la Germania ha subito ribadito che le banche iberiche non possono accedere direttamente ai fondi di salvataggio europei – «Questi strumenti devono essere applicati ai governi», ha dichiarato Steffen Seibert, portavoce della Merkel -, lo stesso Draghi ha dichiarato che «la Spagna deve essere realistica nel valutare un salvataggio europeo. È una loro decisione se vogliono usare Efsf, ma qualsiasi decisione dovrebbe basarsi su una valutazione realistica dei requisiti per ricapitalizzare le banche e sui soldi disponibili senza l’aiuto esterno».

Insomma, redde rationem: altro che i mesi di tempo previsti da Soros, qui è questione di giorni. E a preoccupare deve essere anche l’immediato contagio iberico al nostro Paese e, soprattutto, al nostro sistema bancario. Guardate questo grafico, preparato con tempismo sospetto dal più grande hedge fund del mondo, Bridgewater.

 

Partendo dal presupposto che lo strumento ibrido combinato di Efsf/Esm non dispone di liquidità sufficiente nemmeno per la metà delle necessità di finanziamento di Italia e Spagna, le banche italiane per alcuni mesi hanno utilizzato gli oltre cento miliardi ottenuti dalle aste Ltro per acquistare debito pubblico sia sul mercato primario che, soprattutto, secondario, oltre che per altri impieghi ben esemplificati nel grafico: bene, oggi sono in rosso di 48 miliardi di euro! Quindi, non solo non ci sono più linee Maginot garantite dai soldi della Bce ma, addirittura, gli istituti hanno bisogno di nuova liquidità – quella non a caso promessa ieri da Draghi fino a gennaio 2013 – per tamponare un passivo, prima ancora che per tornare attori sul mercato obbligazionario e mantenere incestuosamente in vita il nostro accesso al credito.

Capito, l’8 novembre 2011 ci avevano detto che avevamo evitato la catastrofe per un pelo, che il governo tecnico ci avrebbe salvato e che lo spread non sarebbe più risalito: e ora? D’altronde, c’è poco da sperare in un Paese dilaniato nelle carni dai conflitti d’interesse, dove solo Dagospia ha avuto la libertà di mettere in evidenza le parole di Ignazio Visco, il quale ha sollecitato pubblicamente i banchieri italiani a mettere “a profitto” la norma sui “doppi incarichi”, invece di eluderla spudoratamente. Un’occasione persa, ha rilevato il Governatore di Bankitalia, per sfoltire anche i board bancari, definiti da Visco, senza mezzi termini, “pletorici””. E monitorando solo i primi dieci gruppi bancari italiani, l’inquilino di Palazzo Koch ha fatto rilevare che ben 1136 sono le cariche distribuite nei consigli d’amministrazione. Il tutto per giungere a capolavori come quelli sintetizzati dalla tabella di Bridgewater.

Attenzione, siamo tornati nel mirino: stamattina l’asta spagnola poliennale ci dirà quanto la Bce può ed è intenzionata a intervenire, ma se i mercati attaccano Roma come lo scorso luglio, servirà ben più che aste di liquidità a tre mesi. Servirà il bazooka: e Berlino cosa dirà? Ma, soprattutto, esiste il bazooka? Con i tecnici della Bce che hanno rivisto l’inflazione tra il 2,3% e il 2,5% per il 2012, dalle previsioni di marzo del 2,1-2,7%, come poter sperare in più politica espansiva della Bce senza che il fantasma di Weimar torni ad aleggiare e la Bundesbank intoni il suo “nein, nein, nein”?

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