Poter annunciare alle 2:30 del mattino un rinvio è meglio che ammettere un secco fallimento di un progetto, tutto sommato, modesto. Fare sì che al primo telegiornale – sia del TG5, sia del TG1- di questa mattina 10 luglio, gli inviati presentino il rinvio come una vittoria vuole dire o che gli uffici stampa della delegazione italiana sono “persuasori occulti” di rara efficacia o che gli inviati meritino un “sabbatical” per potere frequentare un corso di economia per principianti – quali quelli delle scuole secondarie superiore.
Proprio ieri nel pomeriggio, in locali della Rappresentanza Europea in Italia, il Centro Europa Ricerche (Cer) presentava il proprio rapporto semestrale in cui si sottolineava come, dopo avere perso 12 punti percentuali del Pil, l’unico anti-spread che serve all’Italia è un programma di crescita (mentre si starebbe scivolando da recessione a depressione). Le stime econometriche del Cer convalidano l’analisi fatta su queste pagine secondo cui lo scudo anti-spread, peraltro delineato in linee molto generali e in gran misura ancora molto “misterioso”, sarebbe, ove venisse in vita, un’arma spuntata al di fuori di un contesto di crescita.
Per quel che si è compreso, la riunione di Bruxelles non è neanche terminata con un supporto unanime all’idea, poiché – dicono gli inviati televisivi – alcuni Stati dell’eurozona hanno ancora “il mal di pancia”. Tuttavia, un buon segnale sarebbe lo sblocco di 30 miliardi di euro per le banche spagnole, sull’orlo di chiudere i battenti. Un altro sarebbe che il Fondo monetario internazionale (Fmi) non si immischierebbe dei problemi italiani: un timore difficile da capire, perché qualsiasi paziente (lo stesso Governo Monti ripete a iosa che lo siamo) dovrebbe cercare i migliori consulti medici senza avere paura del Fmi come se fosse un lupo cattivo avido di sbranare Governi “tecnici”.
Andiamo con ordine. All’interno dell’eurozona si è formato un gruppo di Stati – Francia e Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) – che si attaccano un po’ a tutto per di ritardare le riforme che avrebbero dovuto fare prima di entrare nell’unione monetaria. Ora hanno trovato l’anti-spread come l’aggancio a cui appendersi. La Francia di Hollande è un alleato “naturale” dell’Italia (e degli altri della non tanto allegra compagnia) perché ha un disavanzo delle pubbliche amministrazioni pari al 5% del Pil, un debito pubblico un rapida crescita, un saldo dei conti delle partite correnti al 2% del reddito nazionale, un tasso di disoccupazione superiore al 10% della forza lavoro e, soprattutto, un Governo eletto sulla promessa di aumentare spese pubbliche e abbassare l’età della pensione.
Il Governo Monti, invece di gloriarsi di avere un simile alleato, avrebbe motivo di preoccuparsene: rispetto all’Europa “in ordine” (conti pubblici, economia reale), l’Italia è un mero paravento per una Francia che fa acqua da tutte le parti. In breve, non solo “quelli dell’anti-spread” non sono una ciurma di cui è meglio non fare parte, ma l’enfasi su marchingegni tecnici per tentare di tamponare la sfiducia dei mercati distraggono dal punto vero: la crisi si supera con più Europa, sempre che si tratti di Europa semplice e forte (non di un’ulteriore ragnatela burocratica) con elezione della Commissione, poteri effettivi al Parlamento europeo e trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali all’Ue. Indubbiamente, questo disegno richiede una grande visione – che manca a “quelli dell’anti-spread”- e la consapevolezza che in democrazia chi ha più popolazione e più voti conta di più, soprattutto se lavora e produce più degli altri.
Il 20 luglio si rischia una nuova seduta di onanismo di gruppo alla ricerca di qualche elemento sulla base del quale far dire a giornalisti compiacenti o ignoranti (oppure un po’ di ambedue) che si è vinta una nuova battaglia di Austerlitz. Attenzione – i cronisti sanno poco pure di storia – lo stesso successo di Austerlitz, che “quelli dell’anti-spread” non osano neanche sognare, fu effimero.