Il bollettino quotidiano del percorso di guerra, per dirla con le parole di Mario Monti, presenta una notizia positiva: l’asta dei Bot a 12 mesi ha segnato un indiscutibile successo. Sono stati collocati tutti i 7,5 miliardi offerti a un rendimento del 2,697%, in forte contrazione dal 3,972% di metà giugno. Siamo tornati sui livelli di metà maggio, anche se siamo ben lontani dall’1,15% registrato a inizio marzo. Oggi, come in primavera, poi, a favorire la ripresa sono state più le mosse di Mario Draghi che non il recupero di fiducia dei mercati per i fondamentali dell’Italia. Allora, il recupero era stato reso possibile dalla spinta dei prestiti di Francoforte. Oggi gioca un ruolo fondamentale la decisione della Bce di non remunerare più il denaro depositato dalle banche europee. Stamattina la banca centrale ha comunicato che in un solo giorno i depositi overnight presso la Bce sono crollati a 324,931 miliardi di euro da 808,516 miliardi e il fenomeno dovrebbe proseguire.
L’Italia della finanza pubblica, dunque, ha bevuto un brodino che non serve a rivitalizzare l’economia reale. Non ne fa mistero Giorgio Squinzi, presidente della Confindustria, che ieri ha tenuto fede alla sua fresca fama di Pierino della stanza dei bottoni segnalando che il Pil quest’anno scenderà del 2,4%. Possibile, anzi probabile, che abbia ragione. Del resto, nonostante i progressi della mattinata, la forbice tra Btp e Bund resta di 450 punti, quella con i titoli francesi di 250. Insomma, un distacco che rende impossibile, in un’economia che, lungi dal cedere, scende a rotta di collo, alle aziende italiane di competere. Anche perché le banche, cui è in pratica precluso l’accesso all’interbancario (anche i francesi chiudono l’uscio ai nostri istituti), lesinano i capitali alle nostre imprese.
Il risultato? Non passa giorno senza che un’impresa di casa nostra non passi a qualche operatore a caccia di saldi. Ieri è toccato a Valentino, finito a un player del Qatar vicino al fondo Qia. È una legge amara ma ben nota: quando la banca chiude i rubinetti, si finisce con il vendere l’argenteria al prezzo voluto dal compratore.
La crisi, insomma, morde. E crescono, com’è comprensibile, allarme e malumori. Ma è difficile che ci siano troppe alternative di sostanza alla ricetta Monti, mica più severa della ricetta Rajoy. Anche perché è quanto ci viene chiesto dai partner internazionali, gli stessi che, a novembre, hanno in pratica dato a Cannes gli otto giorni al premier Silvio Berlusconi. In questa cornice la polemica sulla concertazione è un po’ patetica. Certo, la formula ha avuto un grande ruolo nel passato delle relazioni industriali e si può definire “concertata” la svolta della Germania tra il 2001 e il 2003, quando la Repubblica Federale ha messo le basi per i successi di oggi. Ma quella, sia sul fronte fiscale che della scuola e degli investimenti produttivi, era una scelta di imprenditori e del sindacato che guardava alla competitività del sistema, con una una ripartizione delle reponsabilità. Al contrario, il richiamo alla concertazione che occupa il palcoscenico della politica italiana sembra guardare più al buon tempo antico in cui tutto si decideva entro i cortili del nostro condominio, piuttosto che alla necessità di stare sui mercati, cosa che impone grande flessibilità.
Proviamo perciò ad allargare lo sguardo oltre l’uscio di casa, a partire da quell’alluvione di liquidità che scorre in giro per l’Europa, in netto contrasto con il credit crunch che affligge il sistema del credito. I capitali, che fuggono dagli investimenti come un vampiro dall’aglio, hanno ormai compresso i rendimenti dei Bund tedeschi e dei Bond Usa a lungo termine a livelli impensabili: ieri chi voleva avere “l’onore” di parcheggiare i propri soildi presso i titoli a dieci anni emessi da Belino si doveva accontentare dell’1,22%. Chi intende scegliere il Tesoro Usa, incurante della galoppata del deficit Usa e delle incognite fiscali nel dopo elezioni, viene retribuito con l’1,40%. Ma anche chi ha scelto i titoli a breve di Parigi ha acettato di pagare un interesse negativo: chi ha scelto gli Oat scadenza fine dicembre, ha subito un salasso seppur minimo, lo 0,003%. In cambio, François Hollande ha avuto la gradita sorpresa di uno sconto: il debito pubblico paga in media il 2,14%, contro il 2,8% di un anno fa.
Si spiega, in questa cornice, la considerazione inquietante del bollettino della Bce: la volatilità sui titoli di Stato, pur inferiore a quella di novembre, è vicina ai livelli toccati prima della crisi di Lehman Brothers. Dietro l’abbondanza di liquidità provocata da anni di tassi vicini allo zero e altre misure espansive si celano le insidie di acquitrini scivolosi in cui nessuno si sente al sicuro. Nemmeno gli emergenti che hanno ormai preso atto che la crisi europea rischia di avere effetti pesanti in casa loro. Non a caso ieri la Corea del Sud ha tagliato a sorpresa i tassi per dare slancio all’export che mostra segnali di fatica. Lo stesso ha fatto il Brasile, che dallo scorso agosto a oggi ha tagliato il costo del denaro otto volte. La Cina si è già mossa, in più occasioni, ma i margini sono ristretti: su Pechino grava il rischio del crollo dei prezzi immobiliari e di una gelata dei consumi cui si aggiunge il rischio di un’estate con una corsa dei prezzi degli alimenti, innescata dalla siccità nel Midwest americano.
Anche senza citare le incognite della campagna elettorale Usa, che sta condizionando le mosse della Fed, o il rischio di un’esplosione in Medio Oriente o in altre aree calde, dobbiamo prender atto che il disordine monetario, stavolta provocato dall’incapacità congenita dell’Eurozona di intervenire a tutela della moneta unica, sembra prender corpo in un modo ancor più pericoloso di quello del 2008. Non fosse che per una ragione: rispetto ad allora, le banche centrali hanno sparato larga parte delle cartucce.
Inoltre, fa quasi tenerezza ripensare alle sciocche rassicurazioni dei governi di quattro anni fa: allora, recitava lo slogan, si cercava di tener separate la finanza “cattiva” dall’economia reale che era “sana”. Oggi anche i più scarsi di comprendonio devono prender atto che il caos finanziario, cui non si è opposta una terapia convincente (basti pensare agli scandali che esplodono in Usa o al caso Barclays), ha investito in pieno l’economia reale. Con un’aggravante. L’Europa, più simile a un patchwork dalle tinte bizzarre piuttosto che a una realtà economica in grado di ritrovarsi su obiettivi politici o fiscali comuni, si ostina a battere il terreno dell’austerità nella convinzione (errata) che i guai derivino dalla finanza allegra di Italia e Spagna piuttosto che dagli squilibri finanziari generati da un’espansione monetaria sconsiderata e da una finanza più attenta ai bonus dei manager che non alla crescita dell’economia.
È in questa cornice, pessima, che l’Italia deve fare i compiti: l’unica nostra speranza consiste nel far quadrare i conti della bilancia commerciale e dei pagamenti senza dover far ricorso ai finanziamenti da fuori, che non ci sono più da un anno almeno. In assenza della valvola di sfogo della svalutazione (pessimo rimedio), a fronte di “alleati” che non intendono aiutarci se non a condizioni inaccettabili, non resta che l’arma della deflazione di salari e stipendi e/o della riduzione dello stock del debito pubblico con interventi il più possibile condivisi, se non concertati.
Insomma, siamo di fronte a una torta che si è ristretta, ma che deve sfamarci, in qualche maniera, tutti quanti. È difficile, però, trovar la quadra con gli stessi meccanismi utilizzati negli anni delle vacche grasse, quando i sacrifici erano di breve durata ma restava la speranza di una fetta più grande nel futuro. Purtroppo, occorre muoversi più in fretta e con decisioni più severe di quelle degli anni passati. Certo, non nutrire speranze è peccato. Chissà, il futuro potrebbe essere meno brutto di quanto non sembri oggi. Soprattutto se faremo i compiti per bene.