«La Grecia è il solo esempio conosciuto di un Paese in piena bancarotta dal giorno della nascita […]: tutti i bilanci, dal primo all’ultimo, sono in deficit». Il virgolettato non è l’estratto di un report targato Fmi, bensì un compendio sulla “Grecia contemporanea”, scritto da Edmond About. Piccolo particolare: l’opera fu data alle stampe nel 1858. Il capitolo VII, Le finanze, riserva altre sorprese: «Le potenze protettrici della Grecia hanno garantito sulla solvibilità affinché potesse negoziare un debito con l’estero. Le risorse così raccolte sono state dilapidate senza alcun frutto per il Paese e, una volta speso il denaro, i garanti, per pura beneficienza, hanno coperto le passività: la Grecia non poteva onorare gli impegni».
Questo ritratto impietoso ci riporta al 2012 e rende necessaria una riflessione sull’eurocrisi: appurato che le cause scatenanti arrivano da oltreoceano, la crisi ha mostrato una serie di differenze e debolezze strutturali che i paesi membri hanno a lungo nascosto sotto il tappeto della moneta unica. Si è così giunti al paradosso per cui l’euro – e il debito pubblico, che di questa valuta è diventato il simbolo – sale sul banco degli imputati per essere la misura più immediata della debolezza europea, mentre sui problemi strutturali e sugli errori commessi a Bruxelles troppo spesso le analisi poggiano su pregiudizi difficili da scalfire.
Primo fra tutti, il credo in un unico modello socioeconomico, quello impostato a Maastricht e sigillato dal Patto di stabilità e crescita del 1997, a cui presto o tardi ogni paese dell’Ue dovrebbe allinearsi, fosse anche al costo di cancellare cultura e tradizioni di una nazione. Eppure la crisi, di debito/Pil e indici vari, sembra infischiarsene, accomunando senza troppe distinzioni Stati che a detta dei trattati sarebbero virtuosi e non.
Prova ne è che la definizione dei paesi in difficoltà non è cosa agevole: si era partiti coi Pigs, acronimo in cui l’arroganza degli analisti finanziari era pari solamente all’ignoranza in materia economica, per poi passare ai Piigs e ancora all’Europa del sud, secondo schemi degni della Guerra dei Trent’anni, fino ad approdare all’attuale etichetta di “paesi periferici”, analisi in cui la Germania ricoprirebbe un inquietante ruolo di nucleo centrale.
La crisi dell’Unione europea mostra quindi di avere volti diversi e se per alcuni paesi le difficoltà sono rimarcate con frequenza quotidiana, per altri una certa approssimazione di giudizio rischia di trasformare vecchie contraddizioni in dissesti imprevedibili (mentre questo pezzo è scritto, oltremanica imperversa lo scandalo del Libor e l’Eliseo “scopre” di dover tagliare la spesa pubblica per almeno 50 miliardi di euro entro fine anno).
A ben vedere, le facce della crisi sono almeno tre. C’è la Grecia con la sua cronica incapacità a organizzarsi per il bene comune, c’è l’Italia con il suo modello a volte disastrato a volte sorprendente ma quasi sempre incomprensibile all’estero e ci sono Spagna, Irlanda e Portogallo. La fotografia dell’eurocrisi deve partire da questi ultimi. E il motivo è presto detto.
Con il progredire dell’integrazione negli anni ‘90, questi tre paesi hanno cercato di specializzarsi nell’ottica di un’Unione europea a tutti gli effetti. Spagna e Portogallo puntavano su turismo e sviluppo immobiliare e intendevano così attirare sulle proprie coste i ricchi cittadini del nord Europa, più avvantaggiati da quell’economia dei servizi caldeggiata nei trattati Ue. I progetti si erano spinti fino a proporre piani previdenziali transfrontalieri: ai sottoscrittori britannici e scandinavi era concessa la possibilità di ritirarsi in una residenza sul mare al raggiungimento dell’età pensionabile. In alcuni casi al “pacchetto pensione” si aggiungeva la copertura delle spese mediche sostenute presso cliniche iberiche.
Per l’Irlanda, invece, si trattava di far leva sulla propria storia: essere l’unico Paese dell’eurozona di lingua e diritto inglese. Le normative in materia tributaria e finanziaria puntavano a creare un ponte tra Londra e Dublino, facendo di quest’ultima la miglior piattaforma per i capitali che intendevano uscire dalla zona euro e il miglior approdo per quelli che volevano entrarci. I risultati sono stati oggetto di dibattito, sui giornali e sulle scrivanie dei commissari europei: il trattamento tributario garantito a imprese che spesso hanno in Irlanda poco più che il domicilio fiscale, l’opacità di certi titoli negoziabili che sempre in Irlanda sono giunti alla quotazione fin troppo agevolmente.
I danni causati dal fallimento dell’Europa di Maastricht sono sotto gli occhi di tutti, ma la corsa di interi paesi verso la specializzazione solleva anche una questione di carattere generale, una crepa che con ogni probabilità ha segnato l’intero progetto europeo fin da quando l’inchiostro si è asciugato sui trattati. È realistico ipotizzare che sulle coste iberiche siano tutti muratori e infermieri, medici o capi cantiere, mentre una schiera di commercialisti occupa i quattro angoli di Dublino?
Non serve un governo di tecnocrati per affermare che no, non è realistico. Per questo quando si parla di piani di rigore e di crescita, formule anticrisi e modelli a prova di default, il primo aspetto da verificare è che il progetto di vita in comune sia al servizio delle persone. In caso contrario, cioè le persone al servizio di un progetto, i grandi propositi presto o tardi faranno i conti con la realtà. E le guide sulla Grecia resteranno attuali, i modi dei banchieri faranno ancora scandalo, mentre i mestieri e le imprese – per fortuna nostra e dell’Europa – si diffonderanno secondo i talenti delle persone e non i piani dei potenti.