Il doppio downgrading dei titoli pubblici italiani da parte di Moody’s – e la probabilità che Fitch, Standard & Poor’s e di Dagong (la sempre più importante agenzia di rating cinese) facciano altrettanto – non è da prendersi sottogamba. Sarebbe errato credere che i suoi effetti si siano esauriti in poche ore perché l’asta dei Btp triennali è andata meglio delle previsioni e perché gli stessi eurocrati di Bruxelles hanno mostrato segni d’indignazione sulla tempistica della pubblicazione della notizia. Prova ne é che ieri lo spread tendeva a raggiungere la soglia dei 500 punti base. Ancora più sbagliato mettere il downgrading di Moody’s in rapporto con indagini giudiziarie per aggiotaggio da parte di alcune procure.



Gli effetti del credit rating sono come un’onda lunga che, nel caso dell’Italia, potrà sferrare i suoi primi colpi venerdì 20 luglio ed estendersi durante un’estate che si presenta rovente e che, se non vengono prese misure adeguate di politica interna (non solo di politica economica), sarà caratterizzata da forte volatilità. La Cancelliera tedesca Angela Merkel ha già metabolizzato le analisi di Moody’s ricordando che così come non ci sono pasti gratis, non si può pensare ad aiuti senza adeguato monitoraggio. Come dice il proverbio americano, beggars cannot be choosy – chi tende la mano per chiedere non può essere selettivo oppure mostrarsi addirittura con la puzza sotto il naso.



Andiamo con ordine. In altra sede si è raccontato come il rating nasca in Olanda nel Seicento in parallelo con la nascita di intraprese (come la Compagnie delle Indie) che si finanziavano con emissione d’obbligazioni e come John Moody abbia iniziato la sua attività nel 1910 a ragione del caos nei debiti sovrani emessi da numerosi Stati dell’Unione; allora Moody venne visto come un benefattore che offriva, da privato, un “bene pubblico” di cui c’era una forte esigenza per orientare famiglie e imprese.

Un lavoro recente di Stéphane Destraz e Raphaël Lahaye della paludata Ecole Superieure de Commerce et de Management (Escem), due specialisti francesi che non hanno mostrato grande simpatie per agenzie prevalentemente anglosassoni, ricorda come gli accordi di Basilea sulla capitalizzazione delle istituzioni finanziarie hanno aumentato il ruolo delle tre maggiori agenzie, un triopolio dominante sul mercato sino all’arrivo di Dagong sulla scena internazionale. Ci sono state anche proposte di farle diventare “pubbliche”, incoraggiarne una fusione e dare all’organizzazione risultante uno stato analogo a quello delle istituzioni finanziarie internazionali. Il lavoro è sui tavoli dei principali Governi dell’eurozona; speriamo sia stato letto anche a Via Venti Settembre.



Oggi si spara sul pianista e si enfatizzano gli errori di giudizio commessi da questa o quella agenzia nelle prime fasi della crisi finanziaria. L’analisi di Stéphane Destraz e Raphaël Lahaye si basa su un notevole apparato statistico e documenta che c’è una forte correlazione tra le insolvenze effettive e le insolvenze anticipate dalle agenzie, anche quando i “fondamentali” macro-economici paiono essere stati messi sul percorso giusto.

Nell’immaginario generale si pensa che le agenzie utilizzino raffinati strumenti tecnici per orientare (e a volte manipolare) i mercati. Le loro analisi, invece, tengono conto soprattutto del “ri­schio politico” come deter­minante della solvibilità. Dato che i sovrani europei a­vevano la brutta abitudine di non pagare i propri debi­ti, se le Repubbliche che componevano gli Usa ne a­vessero seguito l’esempio, non sarebbe mai esistito, in Nord America e nel resto del mondo, un mercato dei capitali funzionante. Una percentuale importante dei dipendenti delle agenzie sono analisti politici con studi in Scienze politiche. Molti miei studenti alla School of Advanced International Studies della Università Johns Hopkins hanno trovato lavoro a Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s.

In effetti, ciò che può preoccupa dell’Italia non è questo o quel numeretto sull’andamento dei conti pubblici, ma la frammentazione politica e la mancanza di una visione condivisa su dove andare e come andarci. Nel contempo, il Pil ha perso 12 punti percentuali dall’inizio della crisi, siamo all’87simo posto (su 183 economie) delle classifiche della Banca mondiale in materia di disciplina giuridica delle imprese (ma al 158simo per la tutela della correttezza dei contratti ed al 134simo per la tassazione), siamo secondi solo alla Turchia in termini di violazioni dei diritti umani, non riusciamo a trovare un’intesa su come contare i voti di elezioni che avranno luogo tra pochi mesi, proponiamo programmi di privatizzazioni identici a quelli che hanno fatto cilecca solo pochi anni fa, alcuni vagheggiano ascese al Quirinale e concentrano i propri sforzi in campagne mediatiche nonostante pare che anche le timide misure del decreto legge sulla spesa del 6 luglio verranno annacquate (così come è successo al tanto vantato “Cresci Italia”).

In questo contesto, dobbiamo rimborsare 70 miliardi di titoli pubblici entro il 15 settembre. I potenziali acquirenti guarderanno agli indici sintetici di Moody’s e degli altri; si spaventerebbero forse ancora di più se esaminassero il “sottostante” di cui si sono tracciati i lineamenti principali. Gridare contro la speculazione in un’estate che s’annuncia bollente è come lanciare gli strilli “all’untore” di manzoniana memoria.

Il primo colpo – si è detto – lo avremo il 20 luglio quando i Ministri europei dovrebbero cominciare ad affinare le misure anti-spread. Il downgrading di Moody’s rafforza le posizioni di coloro che pensano che l’anti-spread sia solo una perdita di tempo. Ove non una foglia di fico di un’Italia senza bussola. La Cancelliera Angela Merkel – lo abbiamo ricordato in apertura – lo ha già detto chiaro e forte.

Leggi anche

SCENARIO UE/ Il "problema Italia" che decide le sorti dell'euro20 ANNI DI EURO/ Il fallimento europeo che può darci ancora anni di crisiFINANZA/ La “spia rossa” sull’Italexit accesa da Bloomberg