Alcuni articoli della stampa internazionale, tra cui il Financial Times, che hanno attaccato la situazione del regionalismo italiano, meritano considerazione, soprattutto a seguito di quanto sta ora avvenendo in Sicilia. Difficile contraddirli. Da tempo chi scrive ha messo in evidenza alcune gravi anomalie della Regione, in relazione alla spesa per il personale, fuori da ogni parametro di credibilità, al costo per il rimborso dei prestiti che si aggira intorno ai 3 milioni di euro al giorno, alla spesa per investimenti, drammaticamente carente: per le ferrovie nel 2010 la Regione ha impegnato in un anno 3,5 milioni di euro, poco più cioè di quanto spende in un solo giorno per il costo del debito (la Lombardia sulle ferrovie, nello stesso anno ha impegnato circa 700 milioni di euro). Per rendersi conto della situazione basta verificare quanto occorre per andare in treno, ad esempio, da Palermo a Catania (circa 200 km): dalle 4 alle 6 ore.



Qualche cosa di buono è stato fatto anche in Sicilia, come la recente legge sulla detassazione degli investimenti, ma è il sistema complessivo ad essere drammaticamente carente, colorito anche da episodi folkloristici, che vanno anche oltre la pletora di dirigenti o le masse di precari stabilizzati. Ad esempio lo scorso anno la Regione si è offerta volontariamente per sperimentare il processo di armonizzazione dei bilanci (d. lgs. n. 118/2011) – un processo fondamentale destinato a superare le oscurità contabili con una nuova trasparenza offerta dalla contabilità finanziaria affiancata da quella economica (la stessa che adottano le imprese). La Regione ha anche modificato la propria legislazione per farlo (l. reg. n. 7/2012) ma con la stessa mano che acconsentiva a questo processo di incivilimento contabile, quanto mai opportuno in quelle condizioni finanziarie, ha poi deciso di impugnare alla Corte costituzionale lo stesso decreto 118/2011 sulla armonizzazione dei bilanci, ottenendone la sospensione.



Paradossi siciliani. In ogni caso la vicenda della Sicilia riporta a galla un problema più generale dell’assetto istituzionale italiano, troppo piegato alla uniformità in un contesto altamente dualistico. Oggi, a distanza di oltre dieci anni dalla sua approvazione, si può concludere che uno dei fattori che ha concorso ad aggravare il divario Nord-Sud sia stata la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha decentrato in modo imponente competenze legislative ed abolito controlli secondo un criterio di piana uniformità e senza gli strumenti necessari a gestire adeguatamente il processo (federalismo fiscale e Senato federale).



Si possono trarre allora alcune conclusioni. La prima è che quel federalismo incompiuto ha fornito una pessima prova in gran parte del Mezzogiorno. I fatti di Terzigno di qualche tempo fa, i dati sulle case fantasma (nella Provincia di Salerno ammontano a 93.389 unità mentre a Belluno sono 3.616), le denunce degli ispettori del Tesoro sui conti della sanità campana, i dati sull’inutilizzo dei fondi Fas, sono tutti episodi che dimostrano quanto ormai l’Italia viaggi a due velocità. In un sistema caratterizzato da questo dualismo si dovrebbe allora ulteriormente concludere che è opportuno capovolgere quella logica dell’uniformità che per decenni ha guidato in modo fallimentare il nostro regionalismo. In forza di quella logica al Veneto è stato accordato solo il livello di autonomia ipotizzabile per la Campania. La prospettiva era quella di realizzare servizi uguali in tutto il Paese. L’eguaglianza non è stata raggiunta, il dualismo è aumentato e ciò che si è ottenuto è stato di bloccare, a danno di tutti, le possibilità di sviluppo di alcune regioni virtuose.

L’ideologia dell’uniformità (che Paesi come Germania, Austria, Spagna e altri hanno sostituito da tempo con forme di federalismo differenziato) è oggi sicuramente un costo: mantenere in regioni virtuose strutture e controlli statali ad alto tasso di burocrazia, ne rallenta il sistema economico e sociale, produce un inutile costo diretto e un perverso costo indiretto. Si tratta di funzioni e controlli che possono essere regionalizzati, come sta avvenendo in alcune regioni speciali (ad esempio Trento in materia di università). Al contrario la presenza e i controlli statali vanno decisamente potenziati in altre Regioni, dove proprio la loro mancanza produce costi enormi.

In quest’ottica si tratta di introdurre un federalismo differenziato in senso meritocratico, legato alla dimostrazione di alcuni indici di efficienza. Le Regioni virtuose, che anche nel Sud non mancano, hanno titolo a partire per prime, potendo diventare un modello per le altre. La logica della differenziazione in base ad indici di adeguatezza è l’essenza specifica del principio di differenziazione dell’articolo 118 della Costituzione, per le funzioni amministrative e dell’articolo 116 per quelle legislative. Peccato che entrambi questi articoli della Costituzione, introdotti con la riforma del 2001, dopo più di dieci anni, siano rimasti entrambi lettera morta. Forse è il momento di ripensarci.

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