Per chi considera i mercati una bussola che non sbaglia (quasi) mai, l’andamento della finanza globale alla vigilia dell’Eurogruppo rappresenta un enigma di difficile soluzione. A chi credere? Alle Borse che sembrano pronte a colmare il divario che le separa dall’inizio dell’anno? Certo, Piazza Affari accusa ancora un calo del 9% circa rispetto a San Silvestro. In Spagna il gap è addirittura del 22%. Ma, per il resto, le cose non sembrano andare poi così male. La Germania ha recuperato i livelli di maggio, così come la Francia. Wall Street veleggia in terreno positivo.



Più che i fondamentali dell’economia, sembrano contare in questo caso gli umori della piazza finanziaria. Non più tardi di 15-20 giorni fa la notizia di un forte incremento dei prezzi all’asta dei titoli spagnoli avrebbe provocato catastrofi e pestilenze in Borsa, a partire dai titoli bancari. Al contrario, ieri l’impatto negativo è stato assorbito senza troppi problemi. Anche grazie alla voce che i Big d’Europa hanno trovato una sorta di compromesso per l’utilizzo del fondo Efsf.



In sostanza, il memorandum di intesa messo a punto dagli sherpa prevede che Madrid possa usare parte dei soldi già stanziati (100 miliardi) non solo per il risanamento delle banche, ma, a determinate condizioni, per un intervento del fondo salva Stati Efsf sui mercati in funzione antispread. Per averne licenza ci vorrà una lettera all’Eurogruippo che deciderà “in legame con la Bce e, se richiesto, con il Fmi”. Potrebbe essere la quadra per mettere in moto un ombrello anti-spread in vista dell’estate. Non solo per Madrid ovviamente. Anche se, a prender per buone le indicazioni delle Borse, i mercati sono meno pessimisti dei politici.



In fin dei conti, in questi giorni hanno assorbito senza grossi traumi le sortite delle agenzie di rating, il mancato QE3 da parte della Federal Reserve, l’assenza di notizie espansive di rilievo da Pechino. Non solo. Nonostante buona parte delle trimestrali Usa segnali risultati peggiori di un anno fa, i titoli salgono perché i conti sono comunque migliori delle previsioni. C’è da fidarsi? In tempi così perigliosi, quando emerge che il Libor era soggetto a costanti manipolazioni e i giudizi delle agenzie di rating perdono di credito, anche gli analisti vanno seguiti con prudenza. Con una certa malizia, il New York Times ha segnalato in settimana che da tempo le grandi case di investimento ricevono dai principali studi di analisi finanziaria notizia delle variazioni di giudizio (da “vendi” a “compra” o viceversa) con un vantaggio di ore sul mercato.

In un mondo del genere, non ci vuol molto a sospettare che le previsioni sui conti siano state tenute basse a bella posta per consentire il rimbalzo di questi giorni. In sintesi, si ha la sensazione che la finanza, arrivata con le ossa rotte al giro di boa, abbia voglia di lasciarsi alle spalle le angosce del recente passato. A voler vedere il bicchiere mezzo pieno. Il fatto che l’Europa abbia dedicato 50 vertici o giù di lì ai problemi dell’euro pur senza arrivare a risultati definitivi, dimostra che nessuno, a partire da Berlino, vuole rompere.

Eppure, chi ama guardare al barometro del reddito fisso, ha di che mettersi le mani nei capelli. I numeri di Italia e Spagna giustificano il pessimismo più nero. Come ha notato Olivier Blanchard, capo economista del Fondo monetario internazionale, non è pensabile che Roma e Madrid possano sostenere a lungo una forbice di 5-600 punti rispetto all’economia faro dell’Unione europea, cioè la Germania. Nel frattempo, le cose sono se possibile peggiorate. Alla vigilia del vertice dell’Eurogruppo i Bonos madrileni sono stati collocati solo accettando tassi superiori al 7%. L’Italia veleggia sul 6%, già in quota emergenza. Ma, quel che è peggio, si allarga lo spread verso mezza Europa che presta i quattrini al mercato addirittura a tassi negativi.

La contabilità della crisi, insomma, ci condanna. Certo, si rivedono a questi prezzi alcuni compratori stranieri di titoli a due-tre anni. Ma nessun gestore sano di mente se la sente di scommettere sui Btp decennali, con il risultato che la quota di debito pubblico in mano agli stranieri scende dal 50% al 37%, ma il dato, relativo alle aste dei mesi scorsi, non va oltre il 10%.

Il risultato? L’Italia, che per fortuna può contare sul risparmio robusto delle famiglie, deve far conto sempre di più sui capitali domestici. Non è la fine del mondo. Negli anni Novanta i Bot people salvarono il Paese, ma i pensionati, uno dei reparti di punta dei Bot people, potevano festeggiare ogni mese l’arrivo in banca di cedole con percentuali a due cifre che potevano integrare in maniera sensibile il reddito. A questo punto, meglio versare il 7% alle massaie della Val Padana o ai pensionati dello Stato piuttosto che far giocare sui differenziali gli hedge fund dell’Oklahoma con il loro esercito di computer.

Il guaio è che, negli anni Novanta, l’economia reale poteva contare sulla valvola di sfogo della svalutazione, l’ossigeno su cui hanno prosperato le Pmi. Intanto, dopo la sberla del ’92, i politici promettevano quelle riforme di struttura che avrebbero dovuto consentire al Paese di affrontare l’Unione europea (e il cambio fisso) alla pari degli altri. Il risultato è noto: le riforme di struttura non ci sono state. I benefici dell’euro sono stai ingoiati da caste e da evasori fiscali sempre più voraci a danno di chi oggi è chiamato a pagare l’inefficienza altrui.

Lo stesso Olivier Blanchard sottolinea che il vero problema italiano non sta nello spread o nel taglio del debito. No, il vero problema sta nella produttività, che continua a peggiorare nei confronti dei partners del Nord per una somma di motivi, a partire dalle riforme mancate all’inefficienza diffusa che ha fatto perdere all’Italia più di venti posizioni nella classifica della libertà economica, quella che colpevolmente Giulio Tremonti trattò con la sua abituale sufficienza.

Che fare? Tra le ricette merita uno sguardo quella adottata dal Belgio, Paese con un debito pubblico qualche anno fa superiore all’Italia e che oggi, con un rapporto debito/Pil sotto il 100%, presta quattrini a tassi negativi. La ricetta è semplice: non far aumentare le spese più dell’inflazione, aumentare le entrate in linea con il Pil. Niente di più, niente di meno. Anche perché Bruxelles è stata per lunghi tratti senza guida politica, visto lo scontro feroce tra valloni, fiamminghi e minoranze varie. Ma forse l’assenza di maggioranza politica può essere un grande vantaggio. Anche se, ahimè, da noi i tempi stringono. E la recessione rende tutto più difficile.

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