Il doveroso sforzo del Governo di mettere un freno al debito pubblico e di eliminare sprechi e spesa pubblica improduttiva trova nella sua applicazione una continua ripetizione di superficialità e sottovalutazione che, a forza di ripetersi, fanno orma crescere l’impressione che in verità si tratti di un disegno. Il Governo continua ostinatamente a non considerare l’economia sociale, il non profit e le formazioni sociali come partner e potenziali alleati in un disegno di riordino degli assetti economici e istituzionali del Paese.



Azioni che ovviamente in tempi di crisi non si possono più sostenere e quindi, via con i tagli e le soppressioni, senza considerare che in realtà dall’economia sociale, dal terzo settore produttivo, dal volontariato, dall’associazionismo, dalla cooperazione sociale potrebbero arrivare risorse e idee di politica che potrebbero generare non solo risparmi ma anche volani di esternalità positive utili, anzi indispensabili, per garantire la coesione sociale senza la quale, fra poco, potremmo avere le condizioni tecniche e teoriche per ottenere il pareggio di bilancio, ma avremo il Paese reale in ginocchio incapace di riprendersi.



L’ultimo attacco in ordine di tempo arriva dalla spending review in particolare riferendosi ai commi 6/7/8 dell’articolo 4 del D.l. n. 95 del 2012- Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini – pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 6 luglio scorso. Il provvedimento nei fatti contiene un durissimo colpo a ogni applicazione concreta del principio di sussidiarietà orizzontale e verticale. Il comma 6 stabilisce che “a decorrere dal 1° gennaio 2013 le pubbliche amministrazioni possono acquisire a titolo oneroso servizi di qualsiasi tipo, anche in base a convenzioni, da enti di diritto privato esclusivamente in base a procedure previste dalla normativa nazionale in conformità con la disciplina comunitaria”.



Il riferimento “a procedure previste dalla normativa nazionale in conformità con la disciplina comunitaria” in primo luogo non tiene conto della normativa regionale. Inoltre, introduce una rigidità procedurale che potrebbe rischiare di aggravare i costi della Pubblica amministrazione o in ogni caso rendere molto complicata la collaborazione tra amministrazioni e realtà del terzo settore. In un certo modo a fronte della difficoltà di evitare distorsioni e abusi, non si agisce per migliorare i comportamenti ma si blocca il sistema. Sarebbe come se per evitare che gli automobilisti attraversino col semaforo rosso, si installasse a ogni incrocio un passaggio a livello con le sbarre!

Queste norme rischiano, in particolare, nel settore dell’assistenza, dei servizi sociali, della cultura, della tutela dei beni ambientali e del patrimonio artistico del Paese, della formazione, di ostacolare le modalità di risposta sussidiarie, di burocratizzare i rapporti e di diminuire i livelli di accessibilità dei servizi per i cittadini, con un potenziale aggravio dei costi oppure una sostanziale soppressione di opportunità e di tutele.

Senza trascurare poi che anche in termini di applicazione del principio costituzionale di sussidiarietà, come previsto dal Titolo V della Costituzione (in particolare l’art. 117), viene incomprensibilmente esclusa tutta la vasta produzione normativa che regola il settore sulla base di una competenza concorrente o addirittura esclusiva.

L’art. 4 prevede poi, ai commi 7 e 8, due disposizioni che stabiliscono che, per evitare le distorsioni della concorrenza e del mercato, dal 1° gennaio 2014, le pubbliche amministrazioni acquisiscono sul mercato i beni e servizi strumentali alla propria attività mediante le procedure concorrenziali previste dal Codice dei contratti pubblici (comma 7). Si prevede poi che dal 1° gennaio 2014 l’affidamento diretto per valore pari o inferiore a 200.000 euro annui può avvenire solo a favore di società a capitale interamente pubblico (comma 8), quindi in questo caso la tanto richiamata concorrenza e liberalizzazione dei servizi, di fatto viene aggirata poiché da un lato si impediscono i rapporti di natura convenzionale tra Amministrazioni pubbliche e formazioni sociali, dall’altro si perpetua il meccanismo dell’affidamento diretto alle società di emanazione pubblica dove notoriamente si sono annidati sprechi e clientele ampliamente documentate.

La disposizione sopra richiamata, apparentemente coerente con l’impianto generale introdotto dal Codice dei Contratti pubblici, rischia – laddove interpretata letteralmente – di determinare effetti abnormi e incoerenti con altri principi dell’ordinamento generale. Il riferimento è, per esser chiari, alle vigenti discipline speciali previste dal legislatore statale a tutela e promozione di valori e interessi, di rango costituzionale, parimenti rilevanti.

Entrando più in profondità su aspetti che riguardano il mondo delle cooperative sociali, le nuove previsioni normative travolgono l’art. 5 comma 1 della legge 381 del 1991 ove si prevede la possibilità per le amministrazioni pubbliche anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione, di stipulare sotto soglia convenzioni con le cooperative sociali di inserimento lavorativo per creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate.

Tale normativa, fiore all’occhiello nel panorama mondiale, rischia di essere scardinata con la conseguenza che le amministrazioni pubbliche che hanno in carico le persone svantaggiate non avranno la possibilità di azionare uno strumento trasparente per l’affidamento di servizi che danno la doppia finalità (servizio ed inserimento lavorativo), al contempo le nuove procedure produrranno appesantimenti e rallentamenti, con conseguente incremento dei costi della p.a., burocratizzazione dei percorsi per la presa in carico delle persone in difficoltà.

L’operazione poi si completa con la beffa chefa salvi gli affidamenti alle società “in house” (troppo spesso poco efficienti nell’erogare servizi e con scarsa attitudine imprenditoriale) crea una sperequazione tra servizi gestibili in affidamento diretto dalle società di emanazione pubblica e quelli che ora non possono essere più gestiti in affidamento diretto dalla cooperazione sociale. Ma anche tutto il mondo del terzo settore viene di fatto annullato nella relazione di specialità con il settore pubblico.

Siamo convinti che sia arrivato il momento che questo Governo dimostri al Paese che la sua azione non può solo rassicurare i mercati finanziari, ma deve in primo luogo essere accettata dai cittadini. Garantire sviluppo, in un quadro di risparmi equamente ripartiti. Le banche ricevono continuamente risorse. E al terzo settore, ai servizi sociali vengono tolte. Quest’anno l’ammontare del fondo nazionale per le politiche sociali che serve a garantire i servizi essenziali ammonterà a pochi milioni di euro, pare 11 milioni da ripartire tra le 20 Regioni.

Questo non basta? Noi del terzo settore produttivo siamo pronti a fare la nostra parte sul piano del risparmio, della ricerca di soluzioni per rendere più efficace ed efficiente la spesa, per dare il nostro contributo alla crescita. Ma non che ci siano tolti gli strumenti per portare avanti la nostra azione di coesione sociale. Al Governo chiediamo di rendersi contro che esiste ed è rilevante l’apporto che l’universo delle realtà dell’economia sociale alla tenuta del Paese e della sua economia complessiva, pubblica e privata.

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