Tra i miei amici e colleghi universitari, il mio articolo sul Sussidiario di pochi giorni fa, “Il conto alla rovescia della crisi”, che verteva sui “tempi del mercato e i tempi della politica” ha suscitato qualche interesse e qualche discussione. Anche alla luce di questo germe di dibattito che si è sviluppato, torno su alcuni punti e cerco di chiarire meglio il mio pensiero.
Primo: innanzitutto, in questo caso (una volta tanto) non è innanzitutto in gioco una questione di “rivoluzione tecnologica”. La causa del problema che ho segnalato non sta nel fatto che i mercati finanziari sono più veloci grazie alla tecnologia. Quest’ultima è un fattore abilitante, che dà ai mercati più velocità di movimento. Analogamente, la globalizzazione e la deregulation danno loro più ampiezza e libertà di movimento e l’aumento della ricchezza finanziaria nel mondo dà loro più potere. Sono tutte condizioni abilitanti, sono strumenti che i mercati utilizzano.
Io ho voluto piuttosto mettere l’accento sui mercati finanziari come soggetto in grado di esprimere una propria volontà, un proprio disegno, e di utilizzare gli strumenti che ha disposizione per raggiungere propri obiettivi. Ho messo l’accento sulla soggettività dei mercati. Certo, come ci insegna la teoria, si tratta di una soggettività particolare, che emerge spesso in modo spontaneo e non deliberato dal concorso di molti operatori che hanno visioni anche diverse, che non è diretta da un organo centrale di coordinamento, che può risentire di diversi stati di efficienza, ecc. Anche la soggettività degli Stati d’altronde si esprime in modi particolari, diversi da quelli appena descritti.
I mercati, a differenza degli Stati, sono un soggetto nuovo per l’importanza che hanno assunto e, soprattutto, per il condizionamento che sono in grado di esercitare sulla politica, e quindi anche sull’assetto sociale delle nostre nazioni. I mercati sono un soggetto in grado di fare fallire gli Stati o alternativamente di imporre agli stessi scelte affrettate o non condivise dalla maggioranza. Così come, d’altra parte, gli Stati sono in grado di difendersi, regolamentando i mercati e contrastando i loro obiettivi. La sfida è aperta.
Secondo: non ho messo l’accento sulla speculazione (nel mio articolo tale termine non emerge mai, volutamente). La speculazione esiste, certo, così come esistono le frodi finanziarie, la manipolazione del Libor, le vendite alo scoperto, le “scommesse” sul fallimento degli Stati. E la speculazione è uno dei fattori abilitanti, perchè gonfia la finanza, le dà più potere. In un recente articolo comparso su Il Sole 24 Ore, Marco Onado sottolinea come il mercato dei derivati abbia raggiunto una dimensione superiore a dieci volte il totale della produzione di beni e servizi del mondo intero (e si chiede: “Come si fa a sostenere che un mercato di queste dimensioni […]risponde a esigenze fondamentali di copertura dei rischi dell’economia mondiale?”).
Tutto vero e anche importante, ma io nel mio articolo ho piuttosto sottolineato un aspetto che mi sembra più strutturale e non legato (non solo, almeno) alla speculazione. Ho messo l’accento sui diversi obiettivi e archi temporali secondo i quali si muove il sistema finanziario, anche quando opera in modo fisiologico. Anche chi non specula né fa trading giornaliero, ma ha in portafoglio titoli di stato greci, italiani o spagnoli, oggi li vende. Il potenziale investitore che non li ha non li compra, sia esso un fondo comune dalla gestione prudente o un padre di famiglia. Questi soggetti non speculano, ma fanno le loro scelte di investimento finanziario in base al giudizio che danno sull’affidabilità del debitore, sullo stato delle sue finanze, sulle prospettive che ha davanti (ce la farà, nelle condizioni attuali e prevedibili? No. Verrà salvato da qualcuno? Sì, no, non lo so).
Terzo: la cosa che mi colpisce del problema sollevato è la sua apparente mancanza di soluzione. In tante altre situazioni, esiste una risposta sufficientemente condivisa e il problema sembra piuttosto quello della sua implementazione. Per fare un esempio, è ovvio che bisogna aumentare il grado di regolamentazione finanziaria. Questa è una cosa da fare, una soluzione (non l’unica certo), ed è generalmente accettata. Il dissenso verte piuttosto su quali contenuti dare a tale intervento, come disegnare la nuova regulation, ecc. Le difficoltà nascono dalla resistenza opposta alle soluzioni individuate da parte delle lobby bancarie o di portatori di interessi che vogliono difendere lo status quo.
Nel nostro caso, invece, si fatica a trovare la soluzione. Ripeto, e naturalmente semplifico: vi è una strutturale divergenza di orizzonti temporali tra le decisioni del mercato e quelle degli Stati. Come si possono conciliare tali tempi? Ridimensionando in modo radicale i mercati e rallentando con ciò anche il loro contributo positivo e determinante allo sviluppo economico? Oppure riducendo il grado di democraticità degli stati per accelerare la loro capacità di prendere decisioni anche a scapito del confronto democratico e delle corrette vie istituzionali? Mi sembra che in ogni caso bisogna essere disposti a pagare un prezzo, in termini di minore benessere economico o di minore democraticità negli assetti politici (oppure, perdendo salomonicamente un po’ da una parte e un po’ dell’altra). Come si dice, difficile avere in questo caso “la botte piena e la moglie ubriaca”.
Quarto: allargando il discorso, è ovvio che la divergenza tra mercati e Stati non riguarda solo i tempi, ma anche i contenuti delle scelte preferite. Sono soggetti diversi, abbiamo detto, che hanno obiettivi differenti e ragionano in modo differente. Il conflitto può essere quindi ancora più profondo. Io però semplifico e mi riferisco al caso presente, dove il contrasto mi sembra che non riguardi tanto i contenuti (tendenzialmente, e lo dico con qualche tremore, siamo tutti d’accordo nel procedere verso un’Europa più unita). Esso riguarda piuttosto i tempi. I mercati pretendono certezza nella scelta europea e attendono soluzioni rapide.
Quinto e ultimo: segnalo come il dibattito su questo tema, che ritengo centrale, non sia all’altezza della sfida. Il problema è noto, non l’ho certo sollevato io. Ci si limita però alle grida manzoniane contro l’attacco alla democrazia proveniente dai mercati o contro l’insipienza e l’indecisione dei politici europei. Ce la prendiamo con gli speculatori o con la Merkel, senza capire che la questione è ben più grave e destinata a restare con noi anche quando non ci sarà più la Merkel o avremo dichiarato fuori legge gli speculatori. E’ venuto il tempo di iniziare a discutere delle soluzioni a tale problema, che sembrano tutt’altro che evidenti o indolori. E’ venuto il tempo di interrogarsi su come disegnare e far funzionare nel modo più corretto il rapporto tra Stato-finanza. In vista dell’unico obiettivo possibile: il bene comune. Il bene della persona, il bene delle nostre società.