L’ora della verità sembra arrivare. Il piano di rifinanziamento delle banche spagnole ha scatenato l’insoddisfazione dell’oligopolio finanziario internazionale. La prima ragione di ciò è che questo piano ha fatto emergere in piena luce l’asimmetria esistente tra la costituzione istituzionale europea a egemonia tedesca e le conseguenti politiche di salvataggio estemporaneo che si articolano secondo schemi istituzionali nazionali.



I pochi denari destinati, a tempo, per salvare le banche spagnole sono stati infatti non compresi in un meccanismo di intervento euro-continentale, ma invece affidati a un governo spagnolo in profonda crisi di legittimazione e sconvolto dalla serie di default regionali che hanno cominciato a rivelarsi con quello di Valencia e che tra breve avranno il volto drammatico del default catalano, vale a dire un complesso economico pari all’incirca a quello portoghese. Si comprende molto bene quindi come oltre-manica e oltre-oceano le spinte a non investire più in titoli di stato della zona euro si siano fatte sempre più forti e stiano per prendere il sopravvento.



Naturalmente ciò è stato incentivato dall’insipienza politica madornale, sia del Primo Ministro spagnolo, sia di quello italiano. Il primo ha annunciato con candore che le casse madrilene erano vuote, il secondo, con un’incoscienza che veramente non si sa come definire se non drammatica, che il cosiddetto contagio poteva essere alle porte.

In questo modo si è tradita la vera aspettativa che gli investitori internazionali si attendevano, ossia una politica di intervento monetario che – non si gridi al paradosso – salvasse anche se stessa, ossia mettesse al riparo i loro investimenti in euro che ora minacciano i loro bilanci. Questo provvedimento, ci ripetiamo sempre, non può che essere la vera soluzione della crisi dell’euro, ovvero l’intervento illimitato senza condizioni e ostacoli della Banca centrale europea sullo stile della Federal Reserve americana.



Invece in Europa abbiamo ministri teutonici che si nascondono dietro alla loro Corte Costituzionale e primi ministri italiani prestati alla politica che dimostrano di non avere né visione, né sangue freddo per affrontare una situazione che è veramente drammatica. Si ha un bel dire che la situazione italiana, se si guardano i fondamentali, è tutt’affatto diversa da quella spagnola o portoghese o, chiaramente, greca. Quello che conta è che questi fondamentali iniziano a essere scossi soprattutto sul piano delle aspettative da una mancanza di crescita che è esacerbata da una politica fiscale suicida e da una politica di contenimento e riduzione della spesa pubblica che non favorisce l’innalzamento della total factory productivity, ma che, anzi, con i tagli lineari (invece che coi costi standard) danneggia sia la crescita, sia le misure dirette a ripagare il debito.

Insomma, è ben difficile che l’asimmetria tra uno Stato federale europeo che non esiste e dei governi nazionali che pensano di curare la crisi con l’austerità possa risolversi positivamente. D’altra parte non si può sfuggire alla sensazione che si voglia ad arte creare un clima di tensione e di dramma simile a quello che nel 1992 condusse di fatto alla distruzione di gran parte della nostra industria nazionale con privatizzazioni senza liberalizzazioni e oscure manovre che ancora oggi molti ritengono inconfessabili.

A mio parere, il gravissimo attacco istituzionale portato al Presidente della Repubblica da parte del partito dei magistrati combattenti non può essere casuale. Si mira a indebolire, in una nazione che non ha più legittimazione parlamentare, ma sospensione tecnocratica della democrazia, l’unico punto di stabilità istituzionale oggi esistente: il ruolo di Giorgio Napolitano. Come sempre l’anello del potere tiene unite economia e politica, ma mai come oggi questo anello può essere nefasto e porre le basi per distruggere irreversibilmente il patrimonio più prezioso dell’economia italiana: la sua industria manifatturiera attraverso la sua svendita sconsiderata e demagogica.

Se potenti forze nazionali e internazionali sono in atto per far ciò, non pare che ve ne siano altre di nazionali disposte a battersi per impedire questo scempio. Quello che è avvenuto nei giorni scorsi in Parlamento, con la votazione del fiscal compact davanti a un’aula quasi deserta in cui i leader politici erano assenti senza un dibattito che disvelasse la drammaticità della decisione presa, ossia quella di subire un salasso annuale di alcune decine di miliardi di euro per inseguire la chimera della risoluzione del debito pubblico, dimostra che non esistono forze nazionali in grado di rispondere positivamente al dramma che tutti stiamo vivendo.

Viene da sperare che la soluzione risieda nella consapevolezza che la parte più lungimirante del capitalismo internazionale, in primo luogo quello anglosassone, abbia del fatto che non si può desertificare un’economia possente e strategicamente essenziale nell’area mediterranea come l’Italia. Dobbiamo sperare ancora una volta, come il Dante di De Monarchia, che un imperatore straniero giunga a salvare un’Italia in frantumi.

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