Moody’s ha abbassato le prospettive di Germania, Olanda e Lussemburgo da “stabili” a “negative”. Tre dei quattro Stati dell’Eurozona ancora con la tripla A rischiano un abbassamento del rating, mentre a rimanere sicura è soltanto la Finlandia. Un segno dei pericoli sempre più gravi che si corrono in seguito alle turbolenze finanziarie nell’area euro. Lo documenta anche il fatto che il consiglio dei governatori della Bce starebbe pensando di adottare il modello della Fed, introducendo politiche di “quantitative easing” che consistono nell’immissione di nuova moneta sui mercati per facilitare le condizioni di credito. Ilsussidiario.net ha chiesto a Emilio Colombo, professore di Economia internazionale all’Università Bicocca di Milano, di commentare gli scenari che si aprono per l’Eurozona.

L’abbassamento da parte di Moody’s può cambiare qualcosa nella politica di rigore del governo tedesco?

Dipende dal modo in cui a Berlino sarà letta l’indicazione dell’agenzia di rating. Da un lato, potrebbe essere interpretata come un segno del fatto che se non ci fossero i Paesi periferici la Germania starebbe meglio. Dall’altra, potrebbe essere vista come il campanello d’allarme che se tirano troppo la corda finiscono per bruciarsi anche loro. Io sono convinto che la lettura giusta sia la seconda.

Perché ne è certo?

L’outlook della Germania è stato ridotto perché c’è il rischio che ci sia una disgregazione dell’area dell’euro, e Berlino ne avrebbe da soffrire tanto quanto Grecia e Spagna. Questa eventualità non conviene a nessuno, tantomeno ai tedeschi, e quindi Moody’s ha abbassato le prospettive di Germania, Paesi Bassi e Lussemburgo.

Quali conseguenze dovrebbero trarne a Berlino?

La Germania deve capire che è giusto insistere sulla linea del rigore, ma occorre farlo in modo sostenibile. Se i Paesi impegnati con i tagli non sono posti di fronte a un percorso realizzabile, l’austerity non porta a dei reali benefici e finisce per minare la stabilità dell’intero sistema. L’Italia ha messo in atto diverse riforme che ci sono costate sacrifici, ma lo spread a 500 punti base ne inficia totalmente i possibili vantaggi, in quanto nel lungo termine ci porta a pagare interessi non sostenibili. Se il cancelliere tedesco, Angela Merkel, desidera che l’Italia prosegua sulla via delle riforme deve permetterle di essere nelle condizioni perché ciò avvenga.

In che modo?

Il costo delle riforme non deve essere eccessivo, perché altrimenti in una democrazia questo porterebbe gli elettori a ribellarsi e a votare contro. Ciò non significa che i tedeschi debbano pagare per i nostri sussidi, ma se loro vogliono che questo percorso sia sostenibile devono permettere un minore aggravio dei tassi d’interesse a breve termine, che poi si sarà compensato da una maggiore crescita a lungo termine. Non sarebbe quindi un regalo della Germania all’Italia.

Sarebbe piuttosto un investimento sul futuro?

Esattamente. Per fare un’analogia, è come una banca che ha tra i suoi clienti un’impresa che sta realizzando una ristrutturazione. Può decidere di continuare a prestare in quanto è convinta che l’azienda grazie al piano d’interventi sarà poi in grado di restituire il debito pregresso e il nuovo prestito, oppure può semplicemente decidere di “chiudere i rubinetti”. Nel secondo caso l’istituto di credito perderebbe tutto che ha investito nell’impresa debitrice fino a quel momento. Se il percorso di riforme messo in atto da un Paese è credibile, allora è razionale che l’Unione europea lo aiuti a portarlo a termine.

Ritiene che la Bce si trovi di fronte a una svolta sul modello della Fed, attraverso l’utilizzo di politiche di quantitative easing?

Tecnicamente la Bce non può attuare politiche di quantitative easing, perché è vietato dai trattati. D’altra parte il primo mandato della Bce è quello di preservare la stabilità della zona dell’euro. Qualora quest’ultima fosse seriamente minacciata, la Banca centrale europea avrebbe la possibilità di compiere azioni “borderline” come il quantitative easing.

Secondo lei c’è la volontà politica per farlo?

Ne dubito, e non mi riferisco certo ai vertici della Bce. I cosiddetti “falchi del Nord” stanno facendo di tutto per minare le fondamenta politiche dell’Europa. Quando si prende una decisione, e il giorno dopo si afferma il contrario, è evidente che questo denota uno scarso impegno politico nei confronti del progetto europeo.

A che cosa si riferisce nello specifico?

Dopo il meeting del 28-29 giugno, Germania, Paesi Bassi e Finlandia hanno fatto una serie di dichiarazioni in contraddizione con quanto era stato stabilito insieme. E’ capitato inoltre diverse volte che la Merkel affermasse una cosa, e poco dopo i suoi ministri dicessero l’opposto.

Politici o dilettanti allo sbaraglio?

I politici sanno benissimo che contano molto non solo le loro azioni, ma anche le loro parole. Fare una cosa e poi dire il contrario può essere il segno di una forte ingenuità, oppure dietro a queste parole ci può essere una volontà, legata a una fede cieca nella bontà delle loro ricette, oppure all’intenzione di tirare la corda perché si pensa in modo miope che tutto questo possa andare solo a loro vantaggio.

In che modo?

Si potrebbe ipotizzare che a creare un clima di incertezza, la Germania abbia solo da guadagnare. In questi mesi Berlino si sta indebitando a tassi negativi, quindi sta guadagnando a indebitarsi, e può farlo soltanto perché c’è una grave insicurezza nell’area dell’euro. La moneta unica nel frattempo sta collassando, e questo va innanzitutto a vantaggio della Germania, che è il principale esportatore dell’Eurozona. Qualcuno potrebbe quindi pensare che certe dichiarazioni siano fatte ad arte, in quanto la Germania se ne avvantaggia. Si tratta però di una visione molto miope, in quanto se la corda si spezza, la Germania poi sarà il primo Paese ad avere delle conseguenze negative, proprio come afferma il rapporto di Moody’s.

 

(Pietro Vernizzi)