Un grido di dolore e di speranza si leva dai paesi in difficoltà: “Solo la Bce ci può salvare”. Ma come? Si sta formando un ampio consenso in Italia, in Spagna, ma anche in Francia, attorno a uno schema che vede in primo piano la Banca centrale europea. Perché spetta a lei dare il la. Il dibattito si estende fino a prefigurare un organico intervento di emergenza per fermare la speculazione, dimostrare che l’euro c’è, acquistare il tempo necessario affinché le politiche di rigore producano gli effetti desiderati.



Ciò non basta a contrastare la recessione che ormai investe l’intera Europa; occorre infatti mettere in moto una politica di reflazione (cioè il contrario della deflazione), in sostanza un sostegno alla domanda di consumi e investimenti che parta dai paesi con attivi nel bilancio pubblico e nei conti con l’estero, a cominciare dalla Germania. Ma la terapia d’urto ha la priorità, anzi è la premessa senza la quale l’organismo, in preda a convulsioni sempre più incontrollate, non è in grado di assorbire la cura ricostituente.



La soluzione più radicale è stampare moneta e acquistare direttamente, sul mercato primario, i titoli di stato dei paesi in difficoltà. In fondo, la banca centrale esiste per emettere la moneta unica e sostenerla. Sui biglietti c’è solo una firma oggi, quella di Mario Draghi. La stabilità dei prezzi sotto un tetto del 2% di aumento annuo è il mandato primo della Bce e la condizione per dare solidità all’euro. Questo obiettivo è stato realizzato ormai da un decennio. Eppure, l’euro è diventato instabile per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la quantità di moneta emessa e con l’inflazione. Dunque, Mario Draghi deve intervenire con tutti gli strumenti adeguati ad affrontare le altre cause di instabilità finanziaria: la sfiducia dei mercati, vere e proprie manovre speculative, l’inaridirsi delle fonti bancarie e il rischio che una crisi di liquidità si trasformi in crisi di solvibilità.



Il ragionamento è coerente, ma si scontra con l’opposizione della Bundesbank e dell’ortodossia tedesca, la quale stenta ancora a prendere atto del fatto che l’equazione lineare tra quantità di moneta e prezzi non funziona più nelle condizioni attuali. Insomma, la crisi ha messo in discussione il teorema di Milton Friedman come ha spiegato Francesco Papadia, ex direttore generale per le operazioni di mercato alla Bce, in una intervista sull’ultimo numero di Panorama. Ma restiamo vittime delle idee del passato.

Non è solo una questione teorica. L’élite e l’opinione pubblica tedesche (non è chiaro in quale ordine) rimangono convinte che l’onere dei salvataggi ricade prevalentemente sulle spalle della Germania trasformata in mucca da mungere da parte degli spendaccioni mediterranei. Hai voglia a dire che l’Italia, Paese in evidente difficoltà, paga la terza parte (in rapporto al suo prodotto lordo) del fondo anti spread o dei prestiti a Grecia e Spagna. La pancia prevale sulla testa, il pregiudizio sulla ragione.

Ci si mette anche il professor Hans-Werner Sinn, con la sua barba da vecchio lupo di mare e l’autorità di capo dell’Ifo, l’istituto sulla congiuntura. E hai voglia a contestarlo con logaritmi e dimostrazioni troppo sofisticate che nessuno capisce. Per tutto questo balletto mediatico-finanziario, bisogna ricordare le parole profetiche scritte da Federico Caffè nel 1972: “Ci si può chiedere come sia possibile dare credibilità a una presentazione artificiosamente allarmistica della situazione economica, in un’epoca come la nostra in cui si fa esteso uso della documentazione statistica e della modellistica econometrica. In realtà, è appunto l’uso che si faccia di questa documentazione che può diventare strumento di esagerato allarmismo”.

È improbabile, dunque, che Draghi si spinga, sulla terra incognita della politica monetaria nelle nuove condizioni create dalla crisi, fino al punto da sfidare l’opinione tedesca. Non sarebbe saggio e il presidente della Bce ha dimostrato di essere un innovatore cauto. E allora? Allora la santabarbara è ben nutrita, ripetono esponenti autorevoli dell’Eurotower, senza per questo forzare la lettera e lo spirito del mandato. Quali sono le armi a disposizione? Ce ne sono almeno sei pronte a sparare.

1 – Una riduzione ulteriore dei tassi di interesse, portandoli allo 0,50% o anche sotto, così da spingere le banche a finanziare l’economia reale e comprare titoli pubblici. La mossa è in calendario per settembre, potrebbe essere anticipata se si scatena una vera tempesta finanziaria.

2 – In tal caso, entra in campo anche un intervento coordinato delle banche centrali a sostegno dell’euro, in termini repentini e massicci, così da stroncare attacchi speculativi. L’estintore globale era già pronto nel caso di un fallimento del vertice europeo di fine giugno. Basta qualche telefonata per metterlo in funzione.

3 – Una terza tranche di finanziamenti illimitati alle banche, questa volta a tasso zero (anche in vista della riduzione degli interessi), per evitare una restrizione della liquidità. Draghi non lo ha escluso e il mercato se l’aspetta.

4 – “Solo la banca centrale ha un potere di fuoco tale da contrastare i mercati”, ha scritto sul Financial Times Lorenzo Bini Smaghi, che pure non è un economista eterodosso e lo ha dimostrato negli anni al vertice della Bce. Ma questo potere va usato in modo consistente e deciso, senza suscitare a ogni piè sospinto dubbi sulle munizioni a disposizione e sul bersaglio da raggiungere. L’idea, insomma, è di seguire l’esempio del Fondo monetario internazionale che impone ai paesi, come condizione per il suo aiuto, precise scelte di politica economica, ma poi non lesina i prestiti come invece ha fatto l’Unione europea nei confronti della Grecia e, sia pure in modo meno drastico, con la Spagna. Nel “duello tra finanza e democrazia” come lo ha chiamato Mario Deaglio su La Stampa, la finanza affonda i colpi ogni volta che la politica scopre il fianco.

5 – Secondo le intese di Bruxelles, la Bce opera come veicolo del fondo salva stati (Efsf, European financial stability facility), cioè compra e vende titoli pubblici per conto del fondo in modo da non farli gravare sul proprio bilancio, scavalcando nello stesso tempo i limiti quantitativi del fondo stesso che oggi ha in cassa, secondo le stime, solo 15 miliardi di euro. È quel che chiedono Roma, Parigi e Madrid. Probabilmente non basterà, ecco perché ci vuole un intervento diretto.

6 – L’acquisto di obbligazioni del tesoro sul mercato secondario, come avvenne lo scorso anno per Portogallo, Spagna e Italia, fu avversato dalla Bundesbank e lo sarebbe ancor più oggi. Ma Draghi ha la possibilità di ridurre lo spazio di discrezionalità, introducendo un criterio generale, cioè mettendo un tetto allo spread, oltre il quale scatta una operazione che non sarebbe più di sostegno ai singoli paesi, ma di difesa dell’euro.

Tutto ciò si può fare senza nuovi via liberi politici, condizione sine qua non per qualsiasi terapia d’emergenza. Prima bisogna stabilizzare l’unione monetaria. Altrimenti, che senso ha parlare di unione politica? Angela Merkel ha lanciato la palla avanti, con il plauso di europeisti d.o.c. come Francesco Giavazzi su Il Corriere della Sera. Il rischio è che si tratti di un rilancio nella terra di nessuno come nel catenaccio all’italiana. Anche perché, nel frattempo, la Germania non approva il Meccanismo europeo di stabilità, palleggiando le responsabilità tra Parlamento e Corte Costituzionale. Dunque, è chiaro a tutti (e dovrebbe esserlo anche ai tedeschi) che solo la Bce può davvero salvare l’euro. Sempre ammesso che lo si voglia davvero salvare.

Per l’Italia un intervento anti-spread è essenziale. Possiamo rimproverare al governo Monti di non aver fatto abbastanza nel taglio delle spese, nelle liberalizzazioni, nella riforma del mercato del lavoro. E di aver puntato troppo sulle tasse. Ma il Paese è in apnea, la recessione profonda e lunga. Chiedere adesso un’altra stretta diventa irresponsabile o una chiacchiera da caffè. Occorre riprendere fiato prima di immergersi ancora, altrimenti dagli abissi non si risale più.

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