Settimana di vertici e incontri ai massimi livelli per salvare l’euro. Incroci tra Parigi, Francoforte, Berlino e Helsinki, il tutto in attesa di giovedì, giorno in cui si riunisce il board della Bce per decidere come mettere in sicurezza gli spread e in cui il Tesoro spagnolo mette all’asta Bonos, dopo il buon collocamento di ieri di Btp a 5 e 10 anni, piazzati per quasi l’intero ammontare (4,8 miliardi di euro su un massimo di 5) e con rendimento in calo. Borse in rally, quindi ma lo spread è tornato a salire: non con violenza, non oltre la soglia psicologica di 500 punti base, ma è salito, nonostante il buon esito dell’asta e le rassicurazioni salva-euro di tre quarti degli esponenti politici europei.
Come mai? Primo, i mercati prezzano la limitata capacità di azione di Mario Draghi, sempre che voglia restare entro gli staccati del suo mandato e non andare a un frontale con la Germania. Secondo, per quanto irrispettoso, da più parti si fa notare come la credibilità della Bce non sia esattamente granitica. Era infatti il 27 luglio 2011 quando l’allora numero uno, Jean-Claude Trichet, impressionò il mondo con le seguenti parole: «Speculare sul default della Grecia è un metodo certo per perdere soldi, viste le decisioni che abbiamo preso lo scorso giovedì». Come sia andata è noto, chi ha speculato sul default greco ha guadagnato il 70% rispetto all’investimento iniziale e Trichet ha fatto la sua, ennesima, figura da cioccolataio, prima di suicidarsi del tutto alzando i tassi d’interesse. Terzo, a mio avviso si sta sottovalutando la montante rabbia tedesca nei confronti dell’ipotesi di acquisti di debito attraverso il programma Smp della Bce o, peggio, del fondo Efsf.
Ieri, di buon mattino, il deputato della Cdu, Joerg-Uwe Hahn, ha parlato in toni morbidi di quanto sta accadendo, conversando con la Die Welt: «I Trattati europei permettono agli Stati membri di denunciare la Bce… È giunta l’ora di aprire la scatola degli attrezzi del Trattato di Lisbona e vedere come si può assicurare che la Bce sia riportata nei binari del suo scopo originario: la stabilità monetaria». Immediata la replica del portavoce del governo, Georg Streiter, secondo cui l’esecutivo ha piena fiducia nella Bce e quindi non vede ragioni per azioni legali: «La posizione del nostro governo sugli eurobond rimane immutata e una condivisione del debito non è nell’interesse nazionale», ha però voluto sottolineare. Insomma, a parole grande solidarietà e condivisione, ma quando sempre più sondaggi mostrano chiaramente la disaffezione della maggioranza dei tedeschi non solo verso l’euro ma anche verso l’Ue, un campanello d’allarme per il governo suona automatico.
Tanto più che se anche giovedì Draghi decidesse di rompere gli indugi e riattivare il programma Smp per gli acquisti sul mercato secondario, i limiti di tale intervento sono giù tutti prezzati dal mercato. Prima di tutto, perché questo tipo di operazione sarebbe comunque reattiva a una situazione estrema, un’implementazione che non rappresenta però una soluzione definitiva come sarebbe invece un fondo Esm con licenza di acquisto. Inoltre, questa volta l’impatto sugli spread periferici rischia di essere ridotto rispetto alla volta precedente a causa della subordinazione del settore privato derivata dallo swap greco, un qualcosa che porterebbe molti gestori a scaricare debito a rischio prima di pagare il prezzo del trattamento preferenziale riservato alla Bce, in quanto investitore istituzionale.
C’è poi la questione dell’emissione di debito spagnolo, visto che per coprire le necessità di finanziamento da qui a fine anno Madrid deve raddoppiare il livello di emissione attuale, numero che non include oltretutto potenziali necessità di finanziamento extra per stabilizzare il debito di alcune regioni. C’è poi il rischio di una volontà di scaricare debito spagnolo sul mercato secondario da parte di investitori non iberici, i quali in assenza di domanda reale venderebbero le loro detenzioni proprio al fondo Smp. Paradossalmente, un cortocircuito che rischia di annullare o depotenziare di molto gli effetti del blitz della Bce, visto che si tradurrebbe meramente in un cambiamento di proprietà di quel debito, destinato però a impilarsi nei bilanci europei.
C’è poi da fare i conti con i precedenti. Dal 2010 a oggi, la Bce ha accumulato nel suo portafoglio un totale di debito sovrano periferico pari a 225 miliardi di euro, italiano, greco e spagnolo soprattutto. Anche in quel caso, furono interventi reattivi per calmare la crisi, sperando che poi i governi e le autorità trovassero soluzioni strutturali. Così non è stato e la storia ci insegna che gli acquisti attraverso l’Smp cominciano a perdere di efficacia sui rendimenti dopo 3-6 settimane, basti pensare a quanto accaduto con gli acquisti di debito italiano e spagnolo dello scorso anno: alla fine, si resero necessarie le due aste Ltro di dicembre e febbraio per evitare di far violare alla Bce i suoi statuti e trasferire il ruolo di acquirente sussidiato alle banche europee.
Insomma, un palliativo e non un cosiddetto game-changer. Non a caso, sempre ieri, quei campioni di tempismo di Moody’s hanno detto chiaro e tondo che «la Bce non può fare altro che guadagnare tempo». Diverso sarebbe se, come prospettato da Goldman Sachs nel suo ultimo report, la Bce si tramutasse nella Bank of Japan e acquistasse anche assets privati. Il problema però, resta sempre lo stesso: chi lo dice alla Bundesbank? Sarà, ma a mio avviso, il rally dura fino a giovedì. Poi…
P.S. Va bene che c’è la crisi, va bene che c’è l’austerity anche per i giochi olimpici, ma mi pare che questa volta il Cio abbia esagerato. Sapete quanto oro c’è nelle medaglie d’oro di London 2012? L’1,34%, a fronte di argento per il 92,5% e rame per il 6,16%! Il tutto, nonostante le regole proprio del Cio dicano che la medaglia del vincitore deve contenere almeno 550 grammi di argento di alta qualità e 6 grammi d’oro. Insomma, la medaglia d’oro vale appena 500 dollari, ai prezzi correnti dei materiali. Quella d’argento 260 dollari, zeppa com’è di rame. E quella di bronzo? Vale 3 dollari, visto che al 97% è rame, al 2,5% zinco e allo 0,5% stagno.
Bei tempi quelli in cui le medaglie d’oro valevano davvero qualcosa, oltre che la gloria olimpica. Ne sa qualcosa Mark Wells, membro dello squadrone di hockey statunitense del 1980, che due anni fa ha venduto all’asta la sua medaglia d’oro, per pagarsi le spese mediche, incassando 310.700 dollari.