Uno degli aspetti più eminenti dell’ultimo ciclo conclusosi con la grande recessione del 2008 è, senza dubbio, il divergente comportamento delle politiche monetarie e fiscali dell’area anglosassone, basata sul nazionalismo monetario, e quelle portate avanti dai paesi membri dell’Unione monetaria europea. In effetti, a partire dalla crisi finanziaria e dalla recessione economica iniziate nel 2007-2008, sia la Federal Reserve che la Banca d’Inghilterra hanno intrapreso politiche monetarie basate sulla riduzione praticamente a zero dei tassi di interesse; l’iniezione massiccia di metodi di pagamento conosciuti con l’eufemistica definizione di “quantitative easing” e l’ingente e continua monetizzazione diretta e senza ritegno del debito pubblico sovrano. A questa oltremodo lassa politica monetaria (nella quale confluiscono simultaneamente le raccomandazioni di monetaristi e keynesiani) si aggiunge l’energico incentivo fiscale che implica il mantenimento, tanto negli Stati Uniti come in Inghilterra, di deficit di bilancio vicini al 10% del rispettivo Prodotto interno lordo (che, comunque, i keynesiani più recalcitranti come Krugman e altri non considerano neanche lontanamente sufficienti).



A differenza di ciò che succede con il dollaro e la sterlina, per fortuna nell’Eurozona non solo non è possibile effettuare con tanta facilità l’iniezione monetaria, ma non è neppure possibile mantenere così impunemente e così a lungo la mancanza di controllo di bilancio. Per lo meno in teoria, la Banca centrale europea non ha le competenze per monetizzare il debito pubblico europeo e, nonostante l’abbia accettato come danno collaterale dovuto ai massicci prestiti concessi al sistema bancario e addirittura, dall’estate 2011, abbia acquisito direttamente e sporadicamente titoli dei paesi periferici più minacciati (Italia, Spagna), la verità è che esiste una profonda differenza economica tra il modo di agire di Stati Uniti e Inghilterra e la politica che si sta portando avanti nell’Europa Continentale: mentre l’aggressione monetaria e la mancanza di controllo dei bilanci vengono intrapresi deliberatamente nel mondo anglosassone senza alcun ritegno, in Europa questo tipo di politiche si portano avanti “a malincuore”, dopo numerosissimi e interminabili “vertici”, frutto di lunghe e difficili negoziazioni a più voci nei quali è necessario trovare un accordo tra paesi con interessi molto diversi e, cosa ancor più importante, le iniezioni monetarie e il supporto al debito dei paesi in difficoltà vengono sempre attentamente dosati e intrapresi a cambio di riforme basate sull’austerità di bilancio (e non sugli incentivi fiscali) e sull’introduzione di politiche di offerta consistenti nel favorire la liberalizzazione e la competitività dei mercati.



E, anche se sarebbe stato preferibile che fosse stata intrapresa molto prima, la ristrutturazione “de facto” del debito greco, che ha ottenuto una riduzione (“hair cut”) vicina al 75% da parte degli investitori privati che hanno erroneamente scommesso sul suo debito, ha mandato un segnale ineludibile ai mercati che non lascia altra via d’uscita al resto degli stati in difficoltà se non quella di intraprendere con rigore, energia e senza ritardi le riforme necessarie. E anche stati come la Francia, fino a oggi apparentemente intoccabili e adagiati sugli allori di un ipertrofico Stato del Benessere, si sono visti tagliare la massima classificazione creditizia del proprio debito, hanno visto incrementare il differenziale (spread) con il Bund tedesco e sono stati costretti a intraprendere riforme di austerità e liberalizzazione per non mettere in pericolo la loro fino ad oggi indiscutibile appartenenza allo “zoccolo duro” dell’Eurozona.



Dal punto di vista politico è assolutamente evidente la leadership tedesca (e in particolar modo del suo cancelliere, Angela Merkel) che sta stimolando tutto questo processo di risanamento e austerità (e che si oppone a ogni genere di proposte insensate che, come l’emissione di “Eurobond”, eliminerebbero gli incentivi che al momento hanno i diversi paesi per agire con rigore). Tra l’altro, spesso in questa battaglia la Germania si è ritrovata sola contro tutto e tutti: non solo per le costanti pressioni politiche internazionali di incentivazioni fiscali, specialmente da parte dell’Amministrazione americana di Barack Obama, che utilizza la “crisi dell’euro” come fumo negli occhi per nascondere il fallimento delle proprie politiche, ma anche per l’incomprensione e il rifiuto da parte di tutti coloro che desiderano rimanere nell’euro solamente per ciò che gli fa comodo, e allo stesso tempo si ribellano con violenza contro l’amara disciplina che la moneta unica europea impone a noi tutti e, specialmente, ai politici più demagoghi e ai gruppi di interesse privilegiati più irresponsabili.

In ogni caso, e come esempio che comprensibilmente fa disperare keynesiani e monetaristi, è necessario sottolineare il risultato decisamente diverso che finora hanno avuto le politiche nordamericane di incentivi fiscali e “quantitative easing” monetario se paragonato con quello delle politiche di offerta e relativa austerità fiscale tedesche all’interno della cornice monetaria dell’euro (dati al 31 dicembre 2011): deficit pubblico, in Germania 1%, negli Stati Uniti superiore all’8,20%; disoccupazione, in Germania 6,9%, negli Stati Uniti vicina al 9%; inflazione, in Germania 2,5%, negli Stati Uniti superiore al 3,17%; crescita, in Germania 3%, negli Stati Uniti 1,7% (i parametri dell’Inghilterra, dal canto loro, non sono altro che un calco aggravato di quelli statunitensi). Lo scontro di paradigmi e la differenza di risultati non possono essere più evidenti di così.

Così come era accaduto a suo tempo con il regime aureo, oggi sono un esercito quelli che criticano e odiano l’euro per quella che in fin dei conti è la sua virtù fondamentale: la capacità di disciplinare i politici con le mani bucate e i gruppi di pressione. In ogni caso dobbiamo riconoscere che ci troviamo in un momento storico cruciale. Dalla sopravvivenza dell’euro dipende il fatto che l’Europa interiorizzi e faccia sua la tradizionale stabilità monetaria tedesca, che è l’unica e imprescindibile cornice disciplinante da cui si può continuare a stimolare a breve e medio termine la competitività e la crescita dell’Unione europea. A livello mondiale, la sopravvivenza e il consolidamento dell’euro farà sì che, per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale, si abbia una valuta capace di competere efficacemente con il monopolio del dollaro come moneta diriserva internazionale e, pertanto, di disciplinare l’abitudine nordamericana di scatenare crisi finanziarie sistemiche che, come ad esempio quella del 2007, mettono in grave pericolo l’ordine economico mondiale. (J. Huerta de Soto “In difesa dell’Euro: un approccio austriaco”)

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