“Per favore, signora Merkel, adesso possiamo avviare il motore?”. La voce soffusa ma disperata esce dalla sala macchine di una nave che sta affondando e il vascello si chiama Economia mondiale. Caustico come sempre, l’Economist è uscito con questa realistica quanto allarmante copertina la settimana prima del G20 messicano. Quella implorazione resta senza risposta anche dopo il vertice europeo del 29 giugno e dopo l’incontro di ieri tra la Kanzlerin e Mario Monti. Far ripartire l’economia: è questo il vero obiettivo, la ricetta per affrontare la crisi dei debiti, mitigare l’austerità, renderla socialmente accettabile e politicamente non rovinosa. Tre necessità assolute per tutti, ma in particolare per l’Italia. Crescita contro rigore è oggi più che mai un falso dilemma. Se la fortezza tedesca alza il ponte levatoio, rischia di trasformare la recessione europea in recessione mondiale, visto che gli Stati Uniti stentano e rallentano le locomotive dei paesi emergenti: Cina, India e Brasile. E’ quel che hanno detto sia Barack Obama sia il Fondo monetario internazionale.
Un invito ripetuto da Monti che ha promesso: “Siamo determinati a mantenere una disciplina di bilancio”. “E noi a fare ogni sforzo per la crescita”, gli ha risposto la Merkel. Ma, come non smette mai di lamentare, “non può ricadere tutto sulle nostre spalle, non siamo così forti”. Il suo governo e l’opinione pubblica (non si sa chi spinge chi) pensano di dover aprire il portafoglio per salvare Spagna e Italia, un’impresa impossibile, data la dimensione delle due economie e soprattutto di quella italiana. Le cose in realtà sono diverse. Nessuno chiede assegni in bianco, tanto meno gli italiani, insiste Monti. I compiti a casa non sono terminati? Continueremo a farli. Ma l’Europa non esce dal pantano se non si muove tutta insieme.
“Se i nostri vicini non stanno bene noi non manterremo la nostra prosperità”, ha ammesso la Merkel. Alcune componenti dell’industria e della finanza tedesca pensano di sganciarsi dal resto dell’Europa grazie alla forza dell’export e alla penetrazione sui mercati asiatici, e sognano un ritorno al marco, ma le cifre reali mostrano che è impossibile: il made in Germany è strettamente integrato con l’industria del vecchio continente. E se Berlino si muove, tutti gli altri seguiranno. Il primo passo, il più immediato, è domare i mercati, impedire che attacchi speculativi del tutto dissennati blocchino il risanamento. La Ubs in un suo recentissimo rapporto calcola la sostenibilità del debito italiano a seconda dei tassi, a fronte di un avanzo pubblico primario che tra i 3 e i 5 punti (quindi assumendo che continuino politiche di bilancio rigorose). Ebbene, con interessi al 7% il debito sale dal 120% al 130% del pil; al 6% passa da 120% a 100%, con tassi del 5,4% scende in dieci anni al 77% del prodotto lordo. Dunque, la variabile mercati è fondamentale.
La Ubs ritiene che le scelte fatte finora dal governo siano serie e credibili. E se lo dicono gli svizzeri… “Non ci servono aiuti”, ha dichiarato di nuovo Monti. Alzare lo scudo salva-euro (più corretto chiamarlo così che salva-stati), non serve a far bisboccia, ma a tagliare le unghie agli speculatori molti dei quali vengono dalla stessa Germania se ricordiamo come la Deutsche Bank, alla quale tutti in Italia hanno sempre steso tappeti rossi, si è comportata lo scorso anno liberandosi all’improvviso dei Btp.
L’intesa di massima raggiunta al consiglio europeo è tutta da precisare. E le mosche cocchiere cominciano già a ronzare come stanno facendo olandesi e finlandesi. Non hanno grandi truppe, a meno che dietro di loro non si schieri la Panzer-Division. Il punto sollevato ancora dalla Merkel riguarda il controllo. Al di là della vexata questio sulla sovranità, in concreto Italia e Spagna non vogliono la trojka sul collo come se fossero paesi sull’orlo della bancarotta. Per la Germania, però, mettere sotto tutela le politiche di bilancio è una conditio sine qua non. Dunque, bisogna trovare una soluzione che salvi l’onore di tutti. La diplomazia è al lavoro. Allentata la tensione sui mercati, il secondo passo è consolidare le banche. La concentrazione della vigilanza nella Bce dà più forza a Draghi.
Nel 2009 la Bundesbank si era opposta. Ma lo scandalo della Barclays che nel 2007 e 2008 ha manipolato il Libor, tasso interbancario di Londra (punto di riferimento anche per i mutui) con la sospetta complicità delle grandi aziende creditizie anche tedesche e francesi (come la solita Deutsche Bank e Société Générale (nessuna italiana), dimostra che il modello anglo-sassone di una vigilanza separata dalla banca centrale, più corretta secondo i principi del mercato, non funziona. La Bce è pronta a concedere un’altra boccata di denaro liquido alle banche in difficoltà. Ma il problema è dare loro tempo e modo di rafforzare il patrimonio. Un allentamento dei criteri è allo studio e diventa l’unica alternativa al rischio di salvataggi con i denari dei contribuenti. Il terzo passo è il rilancio della congiuntura, da mettere in cantiere subito, in modo che possa avere effetto tra l’autunno e l’inverno. Qui il pallino è in mano alla Germania perché la Francia, nonostante l’agitazione sociale del governo Ayrault, non ha molti margini, anzi deve trovare tra i 4 e i 6 miliardi in pochi mesi per raggiungere un disavanzo pubblico del 4,5% giudicato sostenibile e ha cominciato aumentando le imposte sui redditi più alti. Il bilancio tedesco mostra un attivo primario (cioè al netto degli interessi) di quasi due punti, seguono Italia (che non è quindi così dissoluta) e Finlandia.
L’Austria è in sostanziale parità, tutti gli altri sono in deficit. Dunque, solo Berlino ha margini per allargare la domanda interna e dare sbocco all’export italiano, francese e spagnolo. Non ci sono contro indicazioni inflazionistiche. I prezzi sono sotto controllo. E la tanto famigerata massa monetaria agitata dagli economisti ortodossi, non sta affatto crescendo. Anzi, la recessione rischia di distruggere più moneta di quanta ne stampi la banca centrale. Nei paesi del G7, la misura base della moneta, M1 (contanti più depositi a vista), cresceva del 5,1% a novembre, è rallentata all’1,8% in aprile e il trend è ancora in discesa preparando una vera e propria gelata in autunno. In molti chiedono a Bernanke una nuova fase di quantitative easing.
E a Draghi di ridurre i tassi. Gli economisti intervistati da Bloomberg si aspettano che oggi la Bce decida un taglio di un quarto di punto come minimo, facendo scendere a 0,75% il punto di riferimento. Altre volte le attese sono state deluse e voci amiche come Il Finbancial Times e l’Economist, hanno criticato la prudenza di Mario Draghi. Ma il consiglio europeo ha fornito abbastanza garanzie affinché la banca centrale si muova.
Bisogna vedere se ancora una volta si metterà di traverso la Bundesbank. L’Eurotower ospita l’unica istituzione davvero federale dotata di poteri di intervento concreti. In più, è indipendente dai governi e (così è stata concepita) dagli interessi nazionali o di parte. Draghi non smette mai di ricordare che la politica monetaria non può fare tutto. Ci sono cose che spettano alle politiche di bilancio e ai singoli stati. Lo dice sempre anche Ben Bernanke, tutti i banchieri centrali usano mettere le mani avanti. Ma il dito sul pulsante, alla fine, ce l’hanno proprio loro.