L’agenzia di rating Standard&Poor’s occupa ancora le pagine dei giornali. Questa volta non per downgrade a banche o al debito sovrano di alcuni paesi. Quando ha rivolto il suo “mirino” togliendo la tripla A agli Stati Uniti avrebbe infatti commesso degli errori di valutazione, mentre quando ha portato le sue attenzioni verso l’Italia l’avrebbe fatto senza utilizzare un adeguato numero di analisti senior. E mentre la Procura di Trani prosegue con la sua inchiesta, S&P’s, insieme a Moody’s e Fitch, è finita sotto indagine dell’European Securities and Market Authority (Esma), l’autorità paneuropea di vigilanza sui mercati. «Il caso, anzi, i casi S&P’s – ci spiega Antonio Quaglio, senior editor de Il Sole 24 Ore – suscitano in modo esemplare interrogativi “strutturali” sulle origini, sulla deflagrazione e ora anche sulla gestione successiva della crisi finanziaria. Le dimissioni dei vertici di Barclays – dopo lo scandalo della manipolazione dei tassi Libor sui mercati – sono degli ultimi giorni: e non è possibile dimenticare che proprio Barclays, quasi quattro anni fa, rilevò le attività di Lehman Brothers in liquidazione dopo il crac. Le grandi agenzie di rating – tra le quali S&P’s spicca assieme a Moody’s – avevano modificato i rating Lehman (che si collocavano su valutazioni elevate) appena una settimana prima del dissesto».
Una lezione che non sembra essere servita.
Da allora i comportamenti delle agenzie non sono migliorati, anzi: da un lato sono stati catturate dalla “spirale del senso di colpa” e hanno via via teso ad accentuare lo zelo nella severità dei giudizi, quasi sicuramente contribuendo ad alimentare le turbolenze speculative. Dall’altro lato, resta il sospetto che si siano accentuati anche comportamenti meno trasparenti, legati alla pressione esercitata dalla crisi sulle grandi banche d’affari dell’oligopolio finanziario globale, strette “controparti” delle agenzie di rating. Ma qui – a parte le evidenze registrare dai magistrati italiani – in fondo periferici sui mercati – mancano (ancora) le prove e controprove. Certamente nulla hanno fatto le autorità statunitensi: il Ceo di JPMorganChase – sostenuta da aiuti pubblici nel 2008-2009 – se l’è cavata con risposte sbrigative davanti a una semplice commissione parlamentare per l’ennesimo “buco” da almeno due miliardi di dollari in derivati registrato dalla sede di Londra per attività “d’azzardo” su derivati.
A questo punto ci si può affidare ancora delle agenzie di rating?
I dubbi sull’effettiva affidabilità tecnica delle agenzie di rating non datano da oggi. E il tema è ancora una volta strutturale. Le agenzie di rating hanno sostituito – nell’architettura funzionale della finanza di mercato – le “vecchie” banche centrali o le authority di Borsa. In breve: un mercato finanziario che si è via via de-bancarizzato e globalizzato ha preteso di autoregolarsi con una vigilanza affidata a soggetti “di mercato” come le agenzie di rating. Se badiamo ai manuali, la transizione non fa una grinza: sul mercato il rating è un servizio che viene venduto a un prezzo; e il servizio viene fornito da imprese private in concorrenza fra di loro. In pratica S&P’s, Moody’s e Fitch formano un ristrettissimo oligopolio (strettamente anglosassone) dalla proprietà opaca e – come hanno dimostrato anche le indagini italiane – dalla professionalità discutibile. Per non parlare del (possibile) resto: se, quando e come i conflitti d’interesse potenziali e i comportamenti anomali si sono concretizzati.
Fa specie pensare che una decisione così importante come quella di un “voto” su un Paese possa essere stata presa da chi riteneva di non avere personale adeguato per compiere delle analisi.
Sembra una banalità affermare che S&P’s avrebbe dovuto dotarsi di “staff” più numerosi, avrebbe dovuto adottare procedure più rigorose e articolate (in breve: non limitarsi solo a leggere i giornali); avrebbe dovuto prendersi più tempo. Ancora una volta, significa confrontare tempi, modi e costi della vigilanza affidata ad authority con gli standard delle agenzie di rating: significa, una volta di più, affrontare in termini critici (nel senso letterale del termine: giudizio) trent’anni di globalizzazione finanziaria. Esattamente come andrebbe fatto per “Basilea 3”, che rimane figlia della globalizzazione “tradizionale”: quella che vuole imporre a una Bcc lombarda che presta 10mila euro a un artigiano gli stessi standard che la Goldman Sachs usa per finanziare con miliardi di dollari un’Opa a Wall Street. La grande crisi bancaria è stata provocata dalle pretese egemoniche della finanza di mercato sulla “biodiversità” del banking al servizio dell’economia reale.
Considerando le diverse indagini e inchieste in atto, sembrano essere tempi duri per le agenzie di rating.
Certamente il dossier “agenzie di rating” è in bilico sulla bollente frontiera “geofinanziaria” fra le due sponde dell’Atlantico. È superfluo ricordare tutte le alzate di scudi europee contro l’oligopolio “selvaggio” delle tre sorelle d’Oltreoceano: non ultima quella delle banche italiane. E non c’è dubbio che una delle realistiche vie d’uscita sia la nascita di un’agenzia di rating europea che rompa l’oligopolio statunitense. In ogni caso è chiaro che le stesse agenzie che hanno strappato agli Usa la “tripla A” (salvo pentirsene, ma solo un anno dopo) sono state le vere spine nel fianco di tutti gli sforzi europei di opporsi alle ondate speculative. Ma il confronto è ancora una volta strutturale: la salute di un Paese, di una macro-area valutaria, la stabilisce (con regole e tempi suoi) un sistema istituzionale come la Ue o un manipolo di agenzie di rating, legate a doppio filo e spirale con le attese speculative dei mercati?