Il debito pubblico italiano raggiunge un nuovo record: 1972,9 miliardi di euro a giugno. Lo ha comunicato ieri la Banca d’Italia nel supplemento al Bollettino statistico dedicato alla finanza pubblica. Riprende quindi con più vigore il dibattito sui piani “taglia-debito” al vaglio del Governo, che ha già annunciato degli interventi a partire da settembre. Si parla di dismissioni di immobili e persino di privatizzazioni di società pubbliche. Si sta poi facendo largo l’ipotesi della nomina di un “Supercommissario” al debito, sulla falsa riga di quanto avvenuto con Enrico Bondi, che dal 30 aprile ricopre l’incarico di Commissario straordinario per la spending review. Metodi e mezzi che però non sembrano convincere Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano.



Cosa non la convince di questi piani per il taglio del debito pubblico?

Storicamente la riduzione del debito pubblico è avvenuta essenzialmente in due modi. Il primo è attraverso una “fiammata” inflazionistica, che fa sì che il valore dei titoli in mano ai creditori si ridimensioni in breve tempo. Questo intervento è tipico dei periodi postbellici. Il secondo metodo si sposa bene con una situazione come la nostra: l’unico grande fattore di riduzione del debito attraverso la generazione di avanzi primari via via in aumento è la crescita economica.



Su questo fronte il nostro Paese appare però parecchio indietro.

L’Italia fa certamente fatica sul piano della crescita. Ciò è dovuto a una politica fiscale molto austera. Se si guarda l’esperienza della Spagna negli ultimi due anni, si vede che ha varato prima di noi misure sempre più rigide, ma senza successo. Il risultato infatti è stato quello di ridurre ulteriormente il tasso di crescita dell’economia e quindi di generare un volume ancora minore di entrate. Mi sembra che nonostante questo precedente ci stiamo avviando sulla stessa strada. A mio modo vedere le ipotesi sul taglio del debito di cui si parla potrebbero forse migliorare qualcosa, ma non andrebbero a toccare il punto essenziale italiano: stiamo continuando a decrescere.



Qual è allora il suo suggerimento?

Direi che occorre un ordine diverso di priorità. Ora si guarda in primo luogo alla riduzione del debito pubblico e poi al resto. Personalmente la priorità mi sembra la buona occupazione e a seguire la crescita e la riduzione “consapevole” del debito. Questo si poteva già fare nel passato. Non è stato fatto ed è stato un errore molto grave. Ma guardiamoci un po’ in giro: Obama si giocherà la rielezione sul tema dell’occupazione e non su quello del debito.

Per una politica fiscale meno austera serviranno però delle risorse.

In questa situazione ci sono altri strumenti che possono essere messi in campo senza toccare necessariamente in prima battuta la politica fiscale. Quello principale è la disponibilità di credito. La situazione è paradossale: il costo del denaro è teoricamente bassissimo visto il tasso di interesse ufficiale della Bce, ma i tassi interbancari sono elevati, ammesso che ci siano crediti le banche. Le banche poi non danno più credito, anche per colpa delle regole di Basilea. Occorre una qualche modalità di intervento di politica monetaria (anche se sarebbe una condizione necessaria, ma non sufficiente) che consenta alle banche di ritornare a rendere disponibile credito, in primis alle imprese e poi anche alle famiglie, a tassi ragionevoli.

 

Quali sono gli altri strumenti che si possono mettere in campo?

 

Si potrebbe europeizzare (ma non con gli eurobond) il debito dei paesi europei per la parte eccedente il 90% del Pil, attraverso un intervento della Bce. Ci vogliono poi degli investimenti: siamo in una situazione di carenza di utilizzo del potenziale produttivo europeo e italiano che ormai non ha precedenti, se non negli anni Trenta. È fondamentale che istituzioni come Bce e Cdp organizzino investimenti mirati, ma robusti, che possano perlomeno non tanto favorire la crescita, ma evitare che l’economia sprofondi. In buona sostanza, teniamoci ben strette le fabbriche e le persone che lavorano. Queste sono le cose che contano. Il resto è subordinato. Potrà sembrare una banalità, ma del resto il settore finanziario deve essere servizio dell’economia reale e non viceversa.

 

Eppure la finanza sembra giocare un ruolo importantissimo. Già si parlava di un agosto rovente sul fronte della speculazione.

 

Non credo a un agosto da “ultima spiaggia”, ma ritengo che dobbiamo prepararci a una “campagna d’autunno”: arriveranno le elezioni americane e alcuni nodi europei verranno al pettine. In Germania si discute di referendum sull’euro, poi il 12 ci sarà la sentenza della Corte costituzionale sul fondo salva-stati Esm. Bisogna quindi cominciare a prepararsi, a mettere degli argini forti. Il primo fondamentale riguarda la sicurezza dei risparmi, dei depositi. Bisognerà poi vedere cosa ne sarà della promessa fatta da Draghi sull’irreversibilità dell’euro; se la Bundesbank non si metterà di traverso chiedendo di essere la vera Banca centrale europea, come di fatto è avvenuto finora. Per questo parlo di campagna di autunno: intrecciate con gli eventi politici ci sono queste vicende legate a istituzioni finanziarie e monetarie che peseranno tantissimo.

 

Intanto si rincorrono le voci di pressioni sull’Italia perché chieda ufficialmente aiuto all’Europa. C’è chi, come Ricardo Levi, deputato del Pd ed ex portavoce di Romano Prodi, caldeggia apertamente questa richiesta da parte italiana.

Penso che sarebbe un azzardo molto rischioso. La Spagna si muove in quella direzione, ma non potrebbe fare altrimenti, perché si è infilata in una gigantesca bolla immobiliare. Se l’Italia, che non ha avuto bolle, solo per il fatto di avere, in una fase recessiva fortissima, un rapporto debito/Pil al 120% quando il Giappone è al 220% (ricordo che Tokyo va avanti così da 20 anni grazie alla sua base industriale che ha tenuto sui mercati esteri), chiedesse un intervento condizionale, saremmo di fronte a una questione molto seria, molto grave. Vorrebbe dire che il Paese sta andando a fondo. Sarebbe l’eutanasia dell’Italia. Senza dimenticare le conseguenze sui mercati.

 

A che cosa si riferisce?

 

Non voglio apparire “nazionalista”, ma una cosa deve essere chiara: se salta l’Italia, salta l’euro. E se salta l’euro, la crisi diventa mondiale. Questa è la reazione a catena possibile. La paura naviga sui mercati. È una paura che va a intaccare il normale investitore, come un fondo pensione, non lo speculatore. Questo perché in Grecia chi si è trovato in mano titoli di stato ha subito un haircut, cioè un taglio del valore di mercato, del 70%. Il timore è che ci siano altri haircut consistenti. L’Italia che chiede aiuto sarebbe un segnale che aumenta questa preoccupazione, non che la fa diminuire.

 

(Lorenzo Torrisi)

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