Se si vanno a confrontare le “misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica” del 2010 con il provvedimento in tema di revisione della spesa pubblica che il governo Monti ha fatto passare la settimana scorsa, ponendo ancora una volta la fiducia, ci si ritrova in una versione ulteriormente riscaldata dello stesso insipido minestrone. Se ne è dovuto infine accorgere – osserviamo per inciso – anche il presidente della Repubblica, grande patrono di questo governo, almeno a giudicare dalla lettera, resa pubblica ieri, che lo scorso 10 agosto aveva fatto inviare dal suo segretario generale Donato Marra al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà.



Cambiano i governi, Berlusconi va in un angolo, i partiti vengono messi nel frigorifero, arrivano i “tecnici” bravissimi ed espertissimi, ma nella sostanza la musica è esattamente quella di prima. Con il sostegno dei sindacati corporativi e delle lobby di ogni genere che sono i loro alleati di sempre, i maestri del “cambiare tutto perché tutto resti come prima” restano imperterriti ai loro posti dimostrandosi sin qui più forti di tutti, tanto del pittoresco Cavaliere quanto del gelido Professore. 



In sede di elaborazione delle norme attuative ci pensano loro a buttare ogni eventuale novità nella macina romana che non solo la riduce in polvere, ma anzi si risolve in un’ulteriore crescita dell’accentramento burocratico nonché dello spreco di tempo e di denaro. Il peso degli interessi costituiti è quello che è, e non lo si può di certo sottovalutare. Si conferma tuttavia che dal fallimento di una classe politica si viene fuori soltanto se se ne forma un’altra capace di raccogliere attorno a un progetto di autentica riforma un vasto e solido consenso popolare. Dai “tecnici” non ci si può attendere niente di davvero innovativo. Sono necessari, ma nient’affatto sufficienti: se la (buona) politica li lascia soli essi, essendo al fondo conservatori per natura, tendono fatalmente a fare soltanto lavori di aggiustamento. 



I “tecnici” insomma non ci salveranno. Siamo ancora al livello – tanto per fare un esempio – dell’art. 6, comma 14 della legge n. 112 del 2010 ove si stabilisce che per l’acquisto di buoni taxi “le amministrazioni pubbliche non possono effettuare spese di ammontare superiore all’80 per cento della spesa sostenuta nell’anno 2009”. Prendo le mosse da questo minuscolo e ridicolo dettaglio perché pur nella sua esiguità è illuminante. Nel nostro Paese diventa nientemeno che una norma di legge statale valida da Tarvisio a Pantelleria, e da Formazza a Santa Maria di Leuca, ciò che insomma in una situazione normale potrebbe essere l’opportuno ordine di servizio neanche di un direttore generale bensì di un semplice capo-ufficio. Facciamo un altro esempio questa volta fuori dell’agenda del governo Monti, che al problema davvero fondamentale della scuola ha scelto di non pensarci nemmeno. 

Per aggiustare e riaggiustare lo sgangherato e crollante macchinone della scuola statale italiana tutti gli esperti, tutti i tecnici ministeriali e para-ministeriali sono pieni di idee, ma se provi a dirgli che la scuola pubblica non esce dalla sua crisi se non si pone fine al più presto alla sua gestione in regime di monopolio statale, allora quasi tutti innestano la retromarcia. 

E non solo gli statalisti dichiarati, ma zitti zitti anche molti di quelli che, in sede di nobile dibattito di idee, sono lucidamente schierati a favore della sussidiarietà e della libertà d’educazione. Occorre insomma una classe politica radicalmente rinnovata che si impegni su un progetto politico radicalmente nuovo; e sia pronta a sacrificarsi per questo poiché nel mondo, senza sacrificio, in fin dei conti non si fa niente di buono. A valle di tutto ciò c’è poi pure un problema di “filosofia” generale della pubblica amministrazione. 

Occorre passare – lasciandosi finalmente alle spalle una pessima tradizione dello Stato italiano – dal sistema delle norme «prescrittive», che pretendono di fissare da Roma in ogni dettaglio che cosa ugualmente si debba fare dappertutto (provocando perciò sempre maggiore burocratizzazione e inefficienza), a quello delle norme «proscrittive», che stabiliscono cioè che cosa non si deve fare lasciando poi che in ogni situazione chi ne ha la responsabilità scelga come liberamente muoversi all’interno del campo d’azione così definito.

Ad esempio fissare dei limiti di spesa da non oltrepassare lasciando poi a chi ne abbia la responsabilità il compito di decidere se spendere meno in taxi o in fotocopie. Oppure – per fare un altro esempio – non puntare al riordino delle autonomie locali calando dall’alto criteri astratti che poi diventano quasi sempre assurdi. Dare invece nella loro sfera a Comuni, Province ecc. la sovranità fiscale: un sistema che nei Paesi in cui viene già applicato dà sempre ottimi risultati. Implica infatti la libertà di prelievo entro una percentuale massima del prodotto del proprio territorio, ma anche l’alea della concorrenza con gli altri simili enti di governo locale: di qui una tendenza generale e permanente a spendere meno e spendere meglio. La revisione della spesa pubblica o si fa con sistemi del genere o sarà comunque un buco nell’acqua.

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