In questi giorni, a cavallo della Festa dell’Assunta, sono uscite notizie contraddittorie sulla politica economica tedesca (e sul futuro). In primo luogo, il saldo attivo della bilancia commerciale della Repubblica Federale è il maggiore del mondo, supera pure quello della Cina; la determinante principale è, senza dubbio, l’efficienza e l’innovazione tecnologica al di là delle Alpi e del Reno, ma un apporto alla performance dell’export tedesco è anche dato dalla valutazione internazionale dell’euro che sarebbe maggiore dell’attuale se del convoglio non facessero parte anche i malmessi Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna). Quasi in parallelo, i dati sulla contabilità economica nazionale tedesca affermano sì che nel secondo trimestre la crescita della Repubblica federale ha accusato un rallentamento, ben inferiore, però, alle aspettative. Nel complesso, nel 2012 la Germania segnerà un aumento del Pil dell’1,5%, nonostante il resto dell’eurozona ristagni o sia in recessione.



In secondo luogo, il giurista Markus Kerber (Università di Berlino) ha fatto ricorso alla Corte costituzionale tedesca tirando in ballo un procedimento pendente presso la Corte di giustizia europea a proposito della compatibilità del Fondo salva-Stati (nelle sue varie forme) con i trattati fondamentali dell’Ue e dell’eurozona. In primo momento, si è pensato che ciò avrebbe implicato un rinvio di numerosi mesi della decisione della Corte Costituzionale tedesca. In un secondo, gli stessi togati di Karlsruhe hanno smentito questa ipotesi.



Il primo agosto, uno dei più noti economisti polacchi, Marek Dabrowski, ha pubblicato un saggio di spessore sulla crisi dell’eurozona in cui, tra l’altro, si ricorda un punto che dovrebbe essere noto a tutti coloro che hanno partecipato ai negoziati sull’unione monetaria: la Banca centrale europea (Bce) e le sue regole sono l’esito di un compromesso tra posizioni molto distanti – un equilibrio delicatissimo che può saltare (e con esso l’intero edificio) se si tenta di modificarlo. Detto questo, i due punti di cui sopra si aggiungono a tante altre incomprensioni sulla politica economica tedesca, sui suoi obiettivi e sui suoi strumenti.



Lo sostiene, meglio di tutti, uno storico dell’Università di Harvard, Steven Ozment, nel libro recente The Serpent and the Lamb. Siamo usi a leggere la Germania attraverso il tentativo nazista di conquista e colonizzazione dell’Europa: 15 anni su oltre 2000 anni di storia. Dimentichiamo che nel quarto secolo dopo Cristo, lo stato maggiore dell’Esercito imperiale romano era interamente formato da germanici che solo un paio di secoli prima erano ancora considerati “barbari”, ma si erano mostrati più efficienti e più efficaci dei romani. Ignoriamo come l’economia sociale di mercato (e le assicurazioni sociali) siano nate nella Germania guglielmina di Bismarck. Non teniamo conto del grande contributo tedesco al pensiero europeo, anche in materia di economia e politica economica.

Per capire la politica economica tedesca è utile fare alcuni riferimenti letterari noti a tutte quelle che un tempo venivano chiamate “le persone colte”. Il più eloquente è il mito di Faust. Mentre in gran parte del resto d’Europa Faust (se non viene punito, come in Marlowe) viene redento, dopo aver fatto mandare Margherita al capestro, perché pentito, nei 12.000 versi del lavoro di Goethe, il protagonista commette anche reati più orrendi (si fa portare agli Inferi per copulare con Elena di Troia), ma, dopo un’atroce battaglia tra angeli e demoni, viene assolto per il bene che ha fatto al resto dell’umanità, reclamando terra arabile dal mare (i Paesi Bassi) e costruendo un sistema d’irrigazione che moltiplicava le rese agricole. È il “servizio” alla comunità alla base della ragione stessa d’esistere.

Nel libro Sulla libertà del cristiano, il tedesco del Nord Martin Lutero lo riassume in una frase: “Un cristiano è il Signore perfetto di tutti e non può essere suddito di nessuno, se è anche il perfetto servitore di tutti”. Oltre trent’anni fa, ne La genesi del capitalismo e le origini della modernità, Luciano Pellicani ha dimostrato come questo non fosse solo frutto del protestantesimo, ma che anche i tedeschi cattolici del Sud (e gli italiani del Nord prima della Controriforma e dell’Inquisizione) condividessero (e condividono ancora) questo teorema di base. Le strutture per fare uscire i poveri dall’indigenza create in Germania nel Rinascimento erano in gran misura modellate su quelle esistenti nei Comuni italiani sin dal Medioevo; mentre nel resto d’Europa, i poveri venivano cacciati fuori dalle mura della città, in Germania (come nei Comuni italiani) li si aiutava a darsi un mestiere o mettere su un’impresa perché potessero essere di ausilio anche agli altri.

I Buddenbrook di Thomas Mann prosperano sino a quando considerano la loro attività imprenditoriale come strumento per migliorare tutta la Repubblica Anseatica di Lubecca; entrano in decadenza quando perdono questo obiettivo e acquistano (a debito) una villa chiaramente a fini di ostentazione. Il senso del servizio alla comunità è così profondo che ha resisto alla secolarizzazione, al nazismo, al comunismo. Il New York Times di lunedì ha pubblicato una lunga inchiesta sulle piccole e medie imprese tedesche: quasi tutti gli imprenditori intervistati hanno affermato che più importante dell’utile di bilancio è trasmettere ai propri figli e al resto della comunità aziende migliori di quelle che hanno ereditato o creato.

In quest’ottica, una Germania, che ha da dieci anni la figlia di un Pastore luterano come Cancelliere e ha appena eletto un ex-Pastore luterano come proprio Presidente della Repubblica, non teme che una politica di bilancio o della moneta lassista inneschi una grande inflazione come ai tempi della Repubblica di Weimar: nel processo di unificazione (in cui ogni anno i trasferimenti ai Länder dell’Est erano dieci volte quanto veniva trasferito in Italia al Mezzogiorno) ha mostrato di sapere controllare l’andamento dei prezzi. Teme che, una volta aiutati a essere rimessi sul binario di conti pubblici sani e di adeguata produttività, gli Stati beneficiari di trasferimenti dal resto dell’eurozona riprendano a pensare unicamente a sé stessi e non al resto della comunità che stanno contribuendo a creare. È a queste preoccupazioni che l’Italia deve dare risposta se spera che prima o poi si arrivi a eurobonds per mutualizzare parte del debito pubblico.

Una risposta tanto più seria in quanto a Berlino, a Monaco, a Francoforte (e non solo) ci si ricorda ancora che nel 1912 firmammo il quinto trattato della Triplice alleanza, ma tre anni dopo eravamo in guerra contro che era formalmente nostro “alleato” dal 1882 e che nel settembre 1943 concludemmo l’armistizio di Cassibile mentre, ufficialmente, “la guerra continuava” a fianco della Wehrmacht.

Nel 1992, dopo la svalutazione della lira (in parte causata dal fatto che la Bundesbank smise di fare credito alla Banca d’Italia), trovammo il percorso verso l’euro come elemento unificante e condiviso per uscire dalla crisi e dare prova di serietà. Oggi potrebbe esserlo il “taglia-debito”, ossia l’insieme di misure straordinarie per ridurre il peso del debito pubblico sul Pil e sulla crescita.

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