L’Europa non è una società per azioni dove i soci contano in base alle quote versate e il Consiglio europeo non può essere considerato come il suo Cda. La richiesta della destra tedesca di poter esercitare un diritto di veto sulle già limitate decisioni nelle mani del board della Banca centrale europea è inaccettabile. Importanti esponenti della maggioranza che sostiene la cancelliera Merkel puntano a rivedere il metodo paritario di votazione adottato fin qui nelle sedi decisionali della Bce come in qualsiasi organismo dell’Unione, attribuendo a ogni Paese aderente un peso proporzionale ai contributi che ciascuno è chiamato a sottoscrivere.
Com’è noto la partecipazione nel capitale della Bce viene ripartita in base alla popolazione e al Pil prodotto di ciascun Paese e aggiornata ogni 5 anni. Oggi a garantirne la parte maggiore effettivamente è la Bundesbank, con il 18,94%, appena superiore alla quota della Banca di Francia con il 14,22%, della Banca d’Italia con il 12,50%, della Banca di Spagna con l’8,30%. L’Eurotower prende le sue decisioni in base alle linee ispiratrici del Trattato di Maastricht che prevede “uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità”. Ma quale voce in capitolo sul loro destino dovrebbero avere allora, nella logica tedesca, tutti gli altri stati dell’Unione che figurano nella lista con pochi decimali? È chiaro che siamo davanti a un altro preoccupante segnale della deriva disgregatrice che sta mettendo seriamente in discussione il futuro del progetto europeo.
Dall’inizio della tempesta venuta da oltreoceano che ha investito l’economia europea, grandi paesi membri dell’Ue governati dal centrodestra, la Francia di Sarkozy e la Germania della signora Merkel in testa, hanno imposto sullo scenario continentale il peso delle loro istituzioni finanziarie e creditizie sui partner più deboli per salvaguardare il proprio mercato interno e usato l’Unione europea e la moneta unica come sponda per espandere le loro attività economiche. Ne è un’ulteriore dimostrazione il dibattito antieuropeista e l’atteggiamento “proprietario” nei confronti delle istituzioni europee che si è sviluppato in queste settimane in Germania in vista della pronuncia della Corte costituzionale tedesca sulla partecipazione di Berlino al fondo Salva-stati. Il boom delle esportazioni della Germania, che hanno superato in valore quelle cinesi piazzandosi al primo posto della classifica mondiale, e la domanda nell’ultima asta dei Bund, che nonostante i tassi negativi ha superato largamente l’offerta, dimostrano che non sono i contribuenti tedeschi a pagare il prezzo della crisi dell’euro, ma al contrario ne stanno ampiamente beneficiando.
I diktat tedeschi, giustificati dalla signora Merkel con l’insofferenza dell’opinione pubblica interna, non hanno evidentemente fondamento e il patto di solidarietà su cui poggia la forza e il progetto dell’Unione europea è messo pericolosamente in discussione per perseguire interessi nazionali ristretti e miopi. L’Italia sta pressando i suoi contribuenti per mantenere gli impegni assunti in Europa, ha riscosso e accantonato la quota di imposte da versare a quel fondo Salva-stati che potrebbe allontanare la speculazione dal debito sovrano europeo mentre la Germania lo sta boicottando, tenendo in bilico i mercati nell’attesa di un pronunciamento della Corte costituzionale che, si badi bene, può essere positivo o negativo.
L’attuale classe politica tedesca sta dimostrando di avere una visione pangermanica dell’Europa fondata sulla legge del più forte, delle convenienze del momento e sugli interessi nazionali, che costituisce un pericoloso passo indietro rispetto ai principi di solidarietà e coesione sui quali gli stessi connazionali padri fondatori, da Konrad Adenauer a Walter Hallstein, hanno poggiato i pilastri dell’Unione europea e ai quali hanno ancorato il destino dell’allora giovane democrazia berlinese. Sono comportamenti inaccettabili sui quali i paesi dell’Unione europea devono chiedere al più presto un chiarimento definitivo: i tedeschi ci dicano se vogliono ancora restare nell’euro e partecipare con passione e convinzione all’indispensabile costruzione degli Stati Uniti d’Europa, oppure no.