Siamo vicini al punto di svolta nella battaglia per l’euro? Da qualche tempo, la Banca centrale europea suscita nuove speranze e anche oggi il mercato si attende decisioni coraggiose. Gli incontri di Timothy Geithner, segretario al Tesoro americano, con Wolfgang Schäuble, ministro delle finanze tedesco, Jens Weidmann presidente della Bundesbank e Mario Draghi, hanno mostrato fino a che punto l’Amministrazione Obama sia preoccupata dalla crisi dell’eurozona.



Washington appoggia l’impostazione interventista di Draghi e sostiene la soluzione indicata da Mario Monti: usare il fondo salva stati per acquistare titoli pubblici dei paesi in difficoltà. Non solo, ha prospettato un’operazione a tenaglia per mettere sotto controllo le variazioni speculative dello spread usando la Bce sul mercato secondario e il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf) su quello primario. Ipotesi confermata anche da Monti.



La Buba ha raffreddato gli entusiasmi ribadendo che non c’è alcun bisogno di dare all’Efsf licenza di operare come una banca e la Bce deve rispettare la lettera il suo mandato. La dichiarazione di Weidmann risale al 29 giugno, ma è stata comunque interpretata come una risposta alle parole di Mario Monti e François Hollande da Parigi. Tuttavia, oggi il consiglio dell’Eurotower potrebbe riprendere il programma di acquisto dei Bonos e dei Btp utilizzato esattamente un anno fa. Schäuble non fa obiezioni, Angela Merkel, al ritorno dalle passeggiate in Alto Adige (pardon, Südtirol), ha detto che ciò non viola il mandato della Bce.



L’inflessibile Jyrki Katainen, il primo ministro finlandese che chiede garanzie reali per ogni euro prestato a greci, portoghesi e spagnoli, ieri di fronte a Monti si è dimostrato comprensivo, ha chiesto che la Bce riduca ancora i tassi, ha auspicato una soluzione europea che dia tempo ai mercati di valutare davvero i progressi dei singoli paesi e ha rilanciato una proposta nient’affatto campata in aria: i paesi in difficoltà emettano titoli speciali da offrire al fondo salva stati; ciò consente loro di ottenere interessi più bassi, senza per questo mettere in comune i debiti come avverrebbe con gli eurobond.

Un’operazione su ampia scala, simile a quella suggerita da Geithner, avrebbe senza dubbio l’effetto di placare la febbre. È solo un’aspirina, dicono gli scettici. Ma quando la temperatura supera il livello di guardia ci vuole un antipiretico. Poi occorre una potente cura di antibiotici. Quali? Per capirlo, cerchiamo di definire bene la malattia.

Se in Grecia e in Italia il batterio killer, tanto per proseguire con la metafora medica, si chiama debito pubblico, in Spagna è il debito privato (famiglie, imprese e soprattutto banche) a generare l’infezione. Il Portogallo soffre di un’endemica debolezza economica, con esportazioni povere e una struttura produttiva fatta a pezzi dalla concorrenza asiatica. L’Irlanda ci racconta la storia di un boom artificioso, sostenuto da una spietata concorrenza fiscale che ha attirato investimenti internazionali grazie agli sgravi delle imposte e anche tanta moneta speculativa.

Nel suo ultimo commento sul New York Times, Paul Krugman mette a confronto la Spagna e la Florida. Entrambe hanno avuto una bolla immobiliare seguita da drammatici crac. “Ma la Spagna è in crisi e la Florida no, perché?”, scrive il premio Nobel per l’economia. La spiegazione è semplice: “La Florida può comunque contare su Washington per continuare a pagare la sicurezza sociale e le cure mediche, per garantire la solvibilità delle sue banche, provvedere ad aiuti d’emergenza per i disoccupati, eccetera. La Spagna non ha una tale rete di sicurezza”. Dunque, la soluzione sarebbe la creazione degli Stati Uniti d’Europa, ma ammesso che ci si arrivi, non è per l’indomani.

Allora come si può salvare l’euro? si chiede Krugman. Per capirlo bisogna fare un passo indietro e chiedersi come mai la moneta unica, questo “calabrone che non doveva volare”, come lo ha chiamato recentemente Draghi, ha avuto otto anni di successi. Le sue debolezze endemiche, secondo l’economista americano, sono state mascherate dal boom nell’Europa del sud: “La creazione dell’euro ha convinto gli investitori che era sicuro prestare denaro a paesi come la Grecia e la Spagna…. Per un po’, tutti sono stati felici. La bolla delle case ha fatto crescere l’occupazione nelle costruzioni mentre l’industria manifatturiera diventava sempre meno competitiva. Nel frattempo la Germania, la cui economia languiva, ha tratto beneficio dal rapido aumento delle esportazioni verso le economie gonfiate del sud. Finché la bolla non è scoppiata”. Le misure di austerità prese per cercare di placare i mercati finanziari, hanno aggravato la recessione. Ed ecco che l’euro non funziona più.

L’analisi di Krugman è semplificatrice e non si adatta all’Italia che non ha goduto se non minimamente della bolla immobiliare. Tuttavia, anche da noi c’è stata per anni l’illusione che i bassi tassi d’interesse e la stabilità monetaria consentita dall’euro potessero rinviare sine die l’aggiustamento dei conti pubblici e la riduzione del debito. Fatte le opportune differenze, Krugman mostra ancora una volta che le cause della crisi sono comuni e comune deve essere anche la soluzione. È chiaro che ci sono nodi strutturali da affrontare e tocca ai singoli paesi farlo. Tuttavia, il compito principale spetta all’insieme dell’Eurolandia perché, sia pure con grandi differenze, il modello è sbagliato per tutti.

L’aggiustamento è ben più difficile quando avviene in uno scenario di recessione, anzi con rischi seri di deflazione. Nonostante quel che dicono molti dottrinari di un monetarismo scolastico, se le banche centrali, a cominciare dalla Bce che dal 2008 ha triplicato il proprio bilancio, non avessero stampato moneta, saremmo in depressione come negli anni ‘30. Basta mettere in relazione l’andamento delle variabili monetarie fondamentali, M1 e M2, con la dinamica dei prezzi in Europa e negli Stati Uniti. Il primo aumento di liquidità risale all’agosto 2007. In genere, la trasmissione ai prezzi non impiega più di sei mesi, un anno al massimo nei casi di maggiore vischiosità o resistenza (che in genere funziona al ribasso non al rialzo). E questa volta non c’è nemmeno la rivoluzione internet a spegnere la fiamma inflazionistica, come avvenne dodici anni fa. Milton Friedman avrebbe fatto come il suo allievo Ben Bernanke o come Draghi? L’Economist ne è convinto. Forse avrebbe tirato loro gli orecchi, ma certo non avrebbe preso le distanze.

La recessione è stata aggravata dalle politiche di rigore finanziario. Su questo non c’è dubbio. Erano necessarie, senza di esse paesi come la Spagna e l’Italia sarebbero falliti. Vero, ma ciò non riduce il loro impatto negativo sulla crescita. Il problema, allora, è che mentre i paesi troppo indebitati avviavano il loro processo di rientro, non c’era nessun altro in grado di sostenere la congiuntura. Avrebbe dovuto farlo la Germania. È il rimprovero che Geithner ha rivolto a Berlino. Il governo può spingere il piede sull’acceleratore perché il bilancio pubblico è sotto controllo e in questi anni il Paese ha accumulato un avanzo della bilancia estera colossale, superiore, in rapporto al prodotto lordo, persino a quello cinese. È avvenuto per la forza delle sue esportazioni, ma anche grazie all’euro, come spiega Krugman. È giunta l’ora di mettere questa ricchezza accumulata a disposizione dell’intera eurozona, non per fare la carità, ma per sostenere la stessa economia tedesca che è in rallentamento e rischia anch’essa di finire in recessione.

La disoccupazione è il flagello che si spande nell’intera Europa, anche quella fuori dall’euro. Per batterla occorre anche in questo caso una ben fornita cassetta degli attrezzi. La banca centrale deve spingere ancora più in basso i tassi di interesse. I paesi che se lo possono permettere debbono allentare le redini fiscali. Tutti hanno bisogno di mettere in campo un bouquet di incentivi di varia natura per stimolare gli investimenti privati. Ma sopra ogni cosa conta cambiare le aspettative: è la leva che avvia la macchina dello sviluppo. L’economia, a questo punto, lascia il posto alla politica.

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