Mario Monti vede la luce in fondo al tunnel. In Germania prende quota il partito anti-Bundesbank, a cui sembra aver aderito, pur con mille cautele, la stessa Angela Merkel. I mercati finanziari hanno smentito i profeti di sventura: agosto, lungi dall’essere come si temeva il mese dell’Apocalisse, ha consentito un po’ ovunque ai titoli azionari di recuperare il terreno perduto. Finora, senza aver impiegato un solo dollaro o un solo euro, i banchieri centrali hanno centrato l’obiettivo di frenare le scorribande della speculazione: nessuno se la sente di scommettere contro la Fed o la Bce quando, in prospettiva, si dà per scontato che prima o poi le banche centrali si mettano in moto con tutta la loro potenza di fuoco. Insomma, in attesa del sesto autunno sotto i cieli della crisi, si va diffondendo la sensazione che il peggio sia ormai alle spalle. O che, quanto meno, si sia individuata la terapia giusta. Il mondo sembra, a prima vista, un posto un po’ meno pericoloso di qualche settimana fa. Ma le cose stanno così?



In realtà, la recessione è più forte che mai. Anzi, dopo la conferma che la macchina produttiva tedesca va frenando (solo lo 0,3% di crescita a luglio) è abbastanza scontato che l’eurozona si avvii a chiudere il trimestre con un segno negativo, probabilmente peggiore del -0,2% precedente. In questo modo, l’Eurozona nel suo complesso finirà nella recessione anche dal punto di vista tecnico, perché si parla di effetto R quando il Pil scende per due trimestri di fila. Dal punto di vista politico la novità è più rilevante: finora l’Europa era in recessione nonostante la tenuta della locomotiva tedesca; a fine settembre, invece, anche la  Germania raggiungerà il plotone dei paesi a crescita 0 virgola o peggio. E in questa situazione la “spina” della Grecia, che non è in condizione di sostenere la terapia concordata, pungerà ancora di più.



Mal comune mezzo gaudio? In genere, almeno in economia, non funziona così. Le crisi invogliano ad alzare barriere protettive, a sostenere le industrie di punta con aiuti più o meno sottobanco. In particolare, rischiano di far crescere la tentazione di uscire dall’euro o comunque di chiedere sconti alla Comunità. Difficile che la Germania vada in quella direzione, anche se le tendenze anti-euro possono rafforzarsi nel caso che la crisi contagi la Repubblica Federale. Ma la maggior parte dei tedeschi,  anche se di pancia la pensa come la Bundesbank, è consapevole che un Paese che invecchia e poggia la sua crescita più sull’export che sui consumi interni (come capita a tutti i paesi anziani) non può prosperare in mezzo al disastro. Inoltre, la Germania ha appena ricevuto un bel regalo: l’ingresso della Russia nella Wto, circostanza che schiude all’export di qualità made in Germany praterie sconfinate di shopping da parte di un cliente che può pagare in gas, petrolio e altre materie prime.



No, non sarà la Germania a schiacciare il bottone della disintegrazione dell’Unione in cui ha investito capitali e  speranze più di ogni altro. Anche se stop, brusche frenate e ultimatum alla Grecia riottosa o all’Italia inaffidabile, piuttosto che alla spavalda Spagna o, perché no, a una Francia meno solida di quanto non si creda, non mancheranno di sicuro.  Il margine di manovra  di frau Merkel, in un anno elettorale, resta stretto. La cancelliera ha ben pochi margini per correre in aiuto alla Grecia o per sostenere Mario Draghi contro il pressing della sua Banca centrale. Il passaggio, insomma, è stretto, non solo in Europa.

I focolai di crisi potenziali sono più numerosi che mai, nell’ultimo scorcio del 2012. L’America si avvia alle elezioni in un clima di pesante conflittualità in materia fiscale. Chiunque vinca si troverà di fronte la mina del “fiscal cliff”, ovvero la concreta minaccia di sottrarre all’economia un buon 4% potenziale di Pil tra tagli di spese e aumenti di tasse. Nel frattempo, la campagna elettorale ha investito la figura dello stesso Ben Bernanke: il candidato repubblicano Mitt Romey ha fatto sua la richiesta del suo vice Paul Ryan  di mettere sotto controllo i bilanci della Fed. 

Le cose in Cina vanno ancora peggio: l’economia perde colpi, il congreesso del partito si avvicina. A differenza di quanto accadde nel 2008, Pechino non è in condizione di allargare i cordoni della borsa: le quotazioni delle materie prime agricole, per colpa di siccità e inondazioni, sono schizzate in alto, a danno delle classi più umili; investire nel manufacturing rischia solo di riempire i magazzini di merce invenduta, perché l’estero compra meno. E il mercato interno, a un passo dallo scoppio della bolla immobiliare, non promette granché di buono. Difficile che le locomotive del pianeta possano trainare il convoglio eruopeo. O che lo possano fare gli emergenti, alle  prese con i contraccolpi sociali della globalizzazione, come dimostra la tragedia consumata nelle miniere del Sud Africa. 

Il passaggio è stretto, troppo stretto per un’Europa troppo gonfia e inefficiente, continuano a ripetere illustri commentatori e critici anglosassoni. “Possiamo solo sperare che gli europei  se la cavino alla meno peggio” ha dichiarato ieri il presidente della Fed di Saint Louis, James Bullard. Vista con gli occhi americani, quindi, l’eurozona è ormai un cumulo di macerie alle prese con le convulsioni di un sistema finanziario che non riesce a darsi un equilibrio o una terapia adeguata.  Del tutto incapace, in ogni caso, di affrontare i nodi strutturali che frenano lo sviluppo di un mercato interno adeguato. Un giudizio impietoso, ma che l’Europa può smentire nel tempo. Ma non facciamoci illusioni. Il difficile, per la gente comune, quella che al mattino non ha motivo per scrutare i listini di Borsa o dell’oro, viene adesso.

I tagli alla Siemens (10 mila posti) e le avvisaglie di frenata delle grandi imprese del Nord Europa produrranno altri effetti perversi nel tessuto industriale di casa nostra. La strada del riequilibrio dei conti commerciali, già intrapresa, si fa più impervia causa l’impennata dei prezzi del petrolio, circostanza che farà crescere l’inflazione. Ci vorrà pazienza e coraggio per affrontare l’ultima parte del tunnel, prima che le riforme intraprese (o abbozzate) producano i primi effetti a partire dai nuovi cantieri. Ci vorrà, soprattutto, quel senso della solidarietà e della comune appartenenza che può consentire al calabrone Italia di stare in volo nonostante il macigno del debito pubblico e quello, ancor più rilevante, di lacci e lacciuoli che hanno condannato l’Italia a detenere tristi record di inoccupazione giovanile e femminile.

Se emergeranno queste virtù, allora si vedrà davvero la luce in fondo al tunnel, in grado di illuminare il buio delle coscienze.  La solidarietà, sia che si tratti della Grecia, sia delle paure di una popolazione impoverita, è l’unica soluzione.