La Germania ha sferrato l’ennesimo attacco contro la Bce; la proposta avanzata da Mario Draghi – conferire all’istituzione comunitaria il mandato di acquistare illimitatamente titoli di Stato sul mercato primario, laddove lo spread di un Paese superi i limiti di guardia a prescindere dai fondamentali della propria economia – i tedeschi, proprio non riescono a digerirla. Il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, intervistato da Der Spiegel si è detto convinto del fatto che il finanziamento della Bce produrrebbe in alcuni Paesi «assuefazione, come se fosse una droga». La Merkel, dal canto suo, si è affrettata a manifestargli il proprio appoggio: «Credo sia un bene che Weidmann metta in guardia i politici in continuazione. Sostengo Weidmann e credo sia un bene che egli, come capo della Bundesbank, abbia molta influenza nella Bce». Abbiamo fatto il punto della situazione con Giulio Sapelli, professore di Storia economica presso l’Università di Milano.



Da dove nasce l’atteggiamento tedesco?

Il timore è che le imprese e i cittadini siano disincentivati a produrre qualunque iniziativa, nella certezza che ogni questione sarà risolta dalla mano pubblica. Questa concezione è animata, in particolare, da chi nutre la convinzione che qualsivoglia intervento che non sia di natura esclusivamente privata sia da ritenersi sbagliato e dannoso; ebbene, questa ideologia, perché di questo si tratta, non ha alcun fondamento storico.



Perché no?

Non risulta che vi siano mai state fasi di crescita senza alcun intervento pubblico. Basti pensare alla formazione degli Stati moderni o allo sviluppo successivo al termine della Seconda guerra mondiale.

Quindi, perché la Banca Centrale Tedesca si ostina nel perseguire questa linea?

I tedeschi sono paralizzati dal dogma secondo cui il compito di una banca centrale consista unicamente nel garantire la stabilità monetaria. Una sorta di blocco teorico che connota la scienza economica tedesca, tuttora condizionata psicologicamente dal ricordo della crisi degli anni ’20 e dall’iperinflazione. Si tratta, in ogni caso, di un paradosso: questa ideologia, infatti, proviene da un Paese ove è nata l’economia sociale di mercato; la quale, tuttavia – è bene ricordarlo – non ha mai avuto alcun teorico tedesco, ma è stata il frutto dell’azione politica congiunta tra democratici cristiani e socialdemocratici.



Da qui, l’avversione a Draghi.

Esatto. Credo che un giorno, quando si apriranno gli archivi storici, si comprenderà che il governatore centrale è stato imposto alla Germania dagli Stati Uniti. Pur essendo un neoclassico, infatti, intende realizzare con la Bce una politica espansiva. Si è inventato machiavellicamente una serie di enti periferici quali il Fondo Salva Stati per consentirle di operare in tal senso. Da questo punto di vista, credo che appoggerà in pieno la proposta degli EuroUnionBond.

Tale strumento ci trascinerebbe fuori dalla crisi? 

Non credo, in realtà, che possa dar vita a quello tsunami finanziario in grado di fermarla. Si tratterebbe, però, di un passo avanti per realizzare quell’azione finanziaria di sostegno alla crescita integrata a livello sovrannazionale che metta la Germania sullo stesso piano degli alti Paesi.  

 

Acquistare illimitatamente bond, invece, riuscirebbe nell’intento?

 

Anch’esso sarebbe un intervento temporaneo in grado di frenare il rischio sistemico.

 

Perché la Bce, da mesi, non applica la sua facoltà di acquistare bond sul mercato secondario?

 

Perché, evidentemente, le tensioni al suo interno sono fortissime.

 

La Banca centrale tedesca ha affermato che la mutualizzazione dei debiti dovrebbe essere stabilita dai parlamenti e non dalla Bce; non crede che i parlamenti intendano proprio dare un tale mandato alla Bce?

 

L’asserzione della Bundesbank rappresenta un mero artifizio linguistico, una manovra diplomatico-finanziaria che la dice lunga su come la Germania non si stia rendendo conto del fatto che l’Europa sta affondando.

 

Weidmann si è detto, inoltre, convinto del fatto che «le cause della crisi risiedono nell’elevato grado di indebitamento, nella scarsa competitività di alcuni Paesi membri e non da ultimo anche nella perduta fiducia nell’architettura dell’unione monetaria»: è così?

 

Dimentica di sottolineare il fatto che i mercati interni si sono prosciugati perché gli Stati europei, salvo la Francia, hanno cercato di supplire alle asimmetrie economiche europee e alle carenze di produttività da lavoro derivante dagli scarsi investimenti tecnologici con l’abbassamento dei salari; la crisi, quindi, deriva dalla sovraproduzione e dal sottoconsumo.

 

Quindi, come se ne esce?

 

Ridando fiducia agli investitori. Implementando tutte quelle politiche fiscali volte a favorire gli investimenti. Per intenderci: occorre passare da un’imposizione sulle imprese che sfiora il 70% al 35%. O detassare i consumi. Di certo, per i primi anni il debito aumenterà. Ma, a un certo punto, il sistema produttivo italiano riprenderà a respirare. Sarà la crescita stessa, quindi, a consentire l’erosione del debito.  

 

(Paolo Nessi

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