Che siano antipatiche, sostanzialmente inutili rispetto a qualsiasi finalità costruttiva e che siano figlie di un monumentale conflitto d’interessi, è pacifico per chiunque analizzi la questione in buona fede: ma tra questo a concludere che “quindi” le agenzie di rating sono fuorilegge, ne corre. Ha colpito un po’ tutti, nel settore, la dichiarazione ottimistica resa dal capo della Fitch in Italia, l’analista Alessandro Settepani, il quale si è detto sicuro che il caso dell’indagine della Procura di Trani contro di lui e la sua società “sia stato un equivoco”.



Ma come? Si sa che l’indagine su Fitch è stata chiusa da una settimana e che la Procura di Trani – dove ha indagato il pm Michele Ruggiero – accusa Settepanni e il suo collega David Riley di manipolazione del mercato azionario e delle merci con giudizi falsati (la stessa accusa è stata mossa a S&P e Moody’s), manipolazione aggravata dal ruolo di Fitch incaricata dal Governo italiano di fornire il rating all’emissione dei titoli di Stato del nostro Paese. Inoltre, i due si vedranno giudicare – per ora dal gip, poi si vedrà se anche in dibattimento – per le responsabilità legate alla legge 231/2001, sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e per questo l’avviso di conclusione è stato notificato al responsabile legale di Fitch Italia presso gli uffici della sede milanese.



E allora perché quest’ottimismo di Settepanni? Perché di fatto la Procura accusa Fitch di fare il suo mestiere: ovvero è alquanto improbabile che si possa mai provare che i giudizi diffusi siano stati falsati consapevolmente e tendenzionalmente, cioè per causare un determinato effetto utile alla stessa Fitch. Come mai? Semplice: tutte le conversazioni critiche, sospensive, ironiche, dubitative, sprezzanti, superficiali, insomma tutte le corbellerie che possono essere state intercettate tra analisti indagando su questa e altre società di rating – in particolare, di intercettazioni si è parlato per l’indagine su Standard and Poor’s – sono ordinaria amministrazione nella vita di un analista che, prima di mettere il suo pensiero nero su bianco – di cui risponde – ha il diritto di dirla e anche spararla grossa quanto vuole. Poi, scrive: e lì non deve sbagliare perché può risponderne.



Ma la prassi consolidata di decenni è che le agenzie di rating tendono a confezionare, nei loro “report”, delle verità alquanto banali, tendenzialmente fotografie dell’ovvio e del noto. E quasi sempre “a posteriori” rispetto ai fatti. Tanto che negli ultimi tempi i mercati hanno iniziato a non prenderle più sul serio, salvo, forse, quando annunciano di “aver messo sotto osservazione” un emittente, perché significa – tradotto – che per quell’emittente arriverà una bocciatura.

Certo, la materia sarà un paradiso per i giuristi, che potranno discettare a lungo tra i concetti di “colpa” (“Le agenzie hanno scritto in buona fede delle corbellerie che hanno indotto i mercati in errore”, ma allora non c’è il dolo), di “dolo” (“Le agenzie hanno scritto per ricavare vantaggi cose scientemente errate”, e allora c’è la truffa!) o “dolo eventuale”, quando cioè si compie un’azione sapendo che potrebbe causare un danno senza la necessarie ponderazione. Ma insomma, che la Procura di Trani possa da sola sconfiggere i colossi del rating, funzionali a un sistema di potere finanziario internazionale mai stato così forte che li ha creati a proprio uso e consumo, è improbabile. Magari finiranno alla sbarra, chissà forse si prenderanno una condannuccia in primo grado ma poi il salmo finirà in gloria.

E’ certo invece che continuando a lavorare così male e in così clamoroso conflitto d’interessi sia con i loro azionisti, fondi e banche – che sfruttano le loro ricerche per decidere come investire – sia con i loro clienti – che li pagano per farsi dare i voti – le agenzie di rating stanno facendo il loro tempo. E il mercato inizia finalmente a dimostrarlo.