Ancora una volta il governo spagnolo rifiuta gli aiuti dall’Unione europea. L’esecutivo di Mariano Rajoy torna ad escludere qualsiasi rete di protezione anti-default. Durante la conferenza stampa congiunta fra il premier spagnolo e il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, quest’ultimo ha elogiato le misure varate dal governo. «La Spagna ha intrapreso misure decise e coraggiose», ha detto Van Rompuy, «tutti i soci europei si rendono conto della grandezza delle riforme adottate. Bisogna applicare queste riforme in pieno». E per questo i leader del vecchio continente «hanno dimostrato la loro volontà d’aiutare la Spagna». Rajoy ha però negato categoricamente che vi siano in corso trattative per ricevere gli aiuti. Lo stato dei conti della Catalogna resta, però, molto critico. Proprio oggi il governo catalano ha formalizzato la richiesta di aiuti per 5,023 miliardi di euro al Fondo di liquidità regionale del ministero delle Finanze. Abbiamo chiesto per IlSussidiario.net un commento a Luigino Bruni, docente di Economia politica all’Università Milano-Bicocca.




Qual è il reale stato di salute dei conti pubblici spagnoli?

Credo che la situazione spagnola sia piuttosto seria per ciò che riguarda il rapporto deficit-pil più che per il debito – che non è così allarmante come nei casi italiani e greco -, ma Madrid ha una crisi economica e strutturale radicata da diversi anni. Il boom dei servizi, del turismo, dell’immobiliare e della finanza registrato negli ultimi dieci-dodici anni è completamente sfumato rendendo l’economia fragilissima e, a differenza del nostro Paese, la Spagna non ha un settore produttivo robusto su cui fare affidamento. Il problema non è, quindi, incentrato sulla spesa, ma sulla crescita. È quindi molto più profondo. In sintesi: la situazione è preoccupante.




Pensa che Madrid rifiuti gli aiuti europei per il timore che si ripeta l’esperienza della Grecia?

Questo è certamente un motivo valido, ma non sottovalutiamo il fatto che l’esecutivo spagnolo non voglia dare un segnale negativo ai mercati proprio quando lo spread sta migliorando, come successo nelle ultime tre settimane.


Questo potrebbe tradursi in una crisi in grado di propagarsi ai Paesi mediterranei?

Non credo che ciò possa avvenire ora. Il rischio del contagio poteva essere molto più probabile all’inizio dell’estate, verso giugno o luglio. Ora il momento è di relativa calma: tutto questo tenendo in considerazione il fatto che molti Paesi, dalla Grecia all’Italia, sono già stati contagiati e sono in crisi da anni. Il problema è, piuttosto, la fragilità strutturale di queste nazioni – a cui in minore misura ci accodiamo anche noi -, che hanno lasciato settori produttivi importanti per gettarsi in quelli dei servizi, della finanza e immobiliare. Tutti settori che hanno contribuito a rendere debole l’economia. Il premier Mariano Rajoy sembra voler tirare dritto sulla sua politica economica, nonostante un’opposizione crescente.




Quali sono i punti più controversi della sua riforma del lavoro? 

Sicuramente l’idea che il lavoro si possa creare senza un rilancio vero e un piano serio. La mia sensazione è che ci sia una concezione di mercato del lavoro molto astratta. Di fatto, il lavoro nasce dalla competitività e da un sistema Paese capace di mettere a reddito i propri punti di forza sul piano culturale ed economico; non nasce nelle stanze dei bottoni ma da una vocazione economica e produttiva che va totalmente recuperata. Qualsiasi riforma dovrebbe contemplare, prima degli aspetti giuridici e legislativi, una manovra di crescita sul Paese e sugli aspetti più strutturali e produttivi che vanno riattivati. E purtroppo nella riforma di Rajoy non vedo questi estremi, indispensabili per ripartire.


La Catalogna, uno dei motori d’Europa, ha annunciato di voler chiedere un aiuto finanziario di 5,023 miliardi allo Stato centrale a causa di difficoltà nel rifinanziamento. Su quali eccellenze può puntare la produttività spagnola per ripartire?

La Catalogna, per la sua conformazione geografica, ha sempre puntato molto sui settori dei servizi, del turismo e dell’alberghiero che ora sono nettamente in crisi. In seguito all’imposizione comunitarie delle quote in campo agricolo ed ittico, la Spagna, specie la Catalogna, e il Portogallo hanno perso fette di mercato fondamentali e sono state obbligate a lanciarsi in settori del tutto nuovi registrando fallimenti colossali. Scelte che ora stanno pagando a caro prezzo. Anche aver concesso autonomia a varie regioni, come appunto la Catalogna, non ha giovato. Uno dei motivi dell’appesantimento del debito pubblico spagnolo è la poca tempestività nell’essersi accorti dei deficit registrati dalle singole regioni.


Ci sono state diverse critiche a Rajoy per non essersi esposto direttamente nello spiegare ai cittadini il senso dei sacrifici chiesti in questi mesi: è una critica condivisibile?

È una giusta osservazione che va estesa anche all’Italia e alla Grecia. Ritengo che in tutti i Paesi europei “fragili” che ora si trovano in crisi, il conto lo stiano pagando le famiglie. I governi, come del resto quello italiano, sono purtroppo in balìa di lobby e di veti incrociati e non riescono a portare avanti riforme importanti: la soluzione a portata di mano è pertanto aumentare le imposte o tagliare la spesa. Tutto questo poi esentando chi potrebbe pagare con tasse e patrimoniali. Il caso francese rappresenta l’esempio opposto. Perché Hollande riesce a fare riforme impopolari? Perché risponde unicamente al Parlamento; al contrario di Italia e Spagna che sono governate da esecutivi “posti e proposti” da istituzioni finanziarie europee e internazionali.

(Federica Ghizzardi)