A prima vista Fitch ieri ha peccato di lieve buonismo con l’Italia, assegnandoci una “crescita zero” cui non credono gli industriali italiano, solo blandamente contraddetti dell’ottimismo della volontà del governo Monti. Vien quindi immediato il sospetto di un peccatuccio veniale da parte della più giovane della tre sorelle dei rating (e quindi meno capace di severità “indipendenti” o addirittura spregiudicate). D’altro canto perfino da Moody’s e S&P’s sono giunti segnali di conferma di una prevedibile simpatia per il premier-tecnocrate italiano. E poi non dimentichiamo che l’inchiesta della sperduta Procura di Trani non è più guardata neppure a Wall Street come un fatto di folklore mediterraneo e si starebbe allargando anche a Fitch.



In ogni caso la  lieve benevolenza “percepita” sul Pil Italiano è subito evaporata nei declassamenti – pesanti e tutt’altro che virtuali – su sette medi gruppi bancari multiregionali (Carige, Bpm, Credem, Bper, Creval, Veneto Banca e Popolare Vicenza). Sarà pur vero che la recessione batte in testa laddove il motore dell’economia ha cilindrata più elevata (cioè al Nord) e le semestrali bancarie non hanno certo brillato. Tuttavia già a fine luglio un declassamento “nel mucchio” da parte di Standard & Poor’s – in contemporanea a un difficile vertice Bce – aveva avuto come unico effetto un crollo di Borsa seguito da un repentino rally di rimbalzo: qualcuno avrà speculato un po’, ma i fondamentali del sistema (solidi nonostante la crisi, ripete Bankitalia) tali erano allora e tali restano anche dopo la pronuncia di Fitch.



Ma c’e’ dell’altro. Ieri il “bersaglio grosso” di Fitch era un altro: il presidente di casa Barack Obama, a dieci settimane dalla sfida per la rielezione. A conferma che ad agosto i rapporti fra Casa Bianca e agenzie di rating toccano il minimo storico, anche la “piccola” Fitch ha minacciato di togliere agli Usa “di Obama” la mitica tripla A, un anno dopo lo storico declassamento da parte di S&P’s. L’amministrazione democratica al test della conferma viene richiamata a fermarsi prima del “fiscal cliff”: il precipizio in cui il bilancio federale rischia di affondare se l’esecutivo non aumenta le tasse o taglia le spese. Già: l’austerity su cui tanta buona prova di sè ha dato l’Italia di Monti. Che tuttavia, in vista delle proprie elezioni generali, comincia a dare stanchezza verso i tecnici. Negli Usa la presidenza è la quintessenza della Politica che tiene a bada ogni Tecnica (dal Mercato alla Difesa). Ma forse è davvero il redde rationem tra l’oligopolio bancario sempre “troppo grande per pagar pegno” e il primo presidente afro dal 1776. E le agenzie di rating sanno sempre come e dove schierarsi. (G.c.)

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