Il capo dello Bundesbank fa i capricci. Draghi intende fare in modo che la Bce possa acquistare i titoli di Stato di quei Paesi il cui spread superi la soglia d’allarme; l’ipotesi calmererebbe i furori della speculazione in un batter d’occhio ma, per la Germania, l’ipotesi non è digeribile. Secondo Jens Weidmann, si determinerebbe un effetto “droga” che assuefarebbe i Paesi in difficoltà disincentivandoli dal compiere tutti i passi necessari per mettere i conti in ordine. Per questo, ha annunciato, per l’ennesima volta, le sue dimissioni. Pare che resterà, per lo meno, fino al 6 settembre prossimo. Fino a quando, cioè, non ci sarà il prossimo direttivo della Bce. Dove, con l’arma del ricatto, dovrebbe far valere ancora di più le proprie posizioni. Abbiamo chiesto a Claudio Borghi, professore di Economia degli intermediari finanziari, cosa ne pensa.



Weidmann minaccia di andarsene. Sarebbe, tutto sommato, un bene?

Non direi: si tratterebbe del secondo governatore che si dimette nell’arco di poco tempo. E, in teoria, rispetto alla durezza del predecessore Weber, ci avremmo pure dovuto guadagnare. Quello su cui dovremmo riflettere, in realtà, sono i criteri di voto in seno alla Bce dove, in linea teorica, i governatori delle Banche centrali dell’Eurozona dovrebbero contare tutti allo stesso modo.



E invece?

Di fatto, il voto della Bundesbank vale di più. Quantomeno, sarebbe meglio dirlo esplicitamente e adeguare i trattati in maniera da regolarizzare una situazione di fatto.

Come si è giunti a tale situazione?

La Germania si considera il grande creditore delle banche europee dei Paesi periferici. Anche a causa dei meccanismi legati al Target 2, il sistema di regolamentazione dei pagamenti interbancari, di norma si produce la seguente dinamica: per i timori più svariati legati alla situazione di incertezza, i cittadini di alcuni stati stanno trasferendo i propri capitali in Germania. Il sistema bancario di quegli Stati si trova con una sorta di ammanco che va colmato. Essi, quindi, chiedono denaro in prestito alla Bce. Che, a sua volta, lo chiede in prestito alla Germania.



E il circolo si chiude.

Esatto. E, a quel punto, la Germania, in quanto creditore, nutre come maggiore timore l’aumento dell’inflazione. Perché, in tal caso, riceverebbe dai debitori denaro che vale meno di quello prestato. Se la Bce comprasse titoli di Stato o se fungesse da agente mandatario del Fondo salva stati, sarebbe, di fatto, come se emettesse moneta. E l’inflazione aumenterebbe. Non solo.

Cos’altro c’è?

La Germania, in questa dinamica, contestualmente ha molto da guadagnarci. Il denaro che presta le viene ripagato; di conseguenza, ha tutto l’interesse a mantenere alta la tensione. Affinché l’emorragia di capitali dagli stati periferici continui a fluire verso le sue casse. La stessa ragione per la quale preferisce che lo spread resti alto: sta rifinanziando il suo spread a tassi, praticamente, negativi.  

In tutto ciò, qual è il rapporto tra la cancelliera a la Banca centrale?

Non credo che, per intenderci, si siano messi d’accordo; semplicemente, perseguendo finalità diverse, raggiungono gli stessi effetti. Credo che la Merkel sia convinta del fatto che sarebbe complicato spiegare ai propri elettori perché la Germania sta pagando per la Grecia; mentre il mondo economico tedesco sa che, dalla situazione, si sta oggettivamente avvantaggiando.

Crede che il capo della Bundesbank si dimetterà realmente?

Credo che sia una tattica per fare pressione sulla Bce. In caso contrario, si determinerebbe un conflitto insanabile. Se il secondo governatore di fila decidesse di dimettersi perché la Banca tedesca non si riconosce nella politica della Bce, il passo successivo dovrebbe essere, necessariamente, l’uscita dall’euro. Ma i tedeschi sanno bene che sarebbe un disastro. Con un marco fortissimo, il loro export crollerebbe. 

 

(Paolo Nessi)

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