È vero che anche Enrico Cuccia, alla veneranda età di 87 anni, esattamente il 13 marzo 1995, entrò nella caserma della Guardia di Finanza in via Fabio Filzi a Milano per difendersi dall’accusa di “concorso in false comunicazioni sociali” nella storia della Ferfin. Quello fu probabilmente il segnale più tangibile che la roccaforte di Mediobanca, il santuario della finanza italiana, non era più intoccabile e la grande banca d’affari veniva esposta alla ventata di “Tangentopoli”. Fu probabilmente il segno inequivocabile della fine di un “regno” durato per 50 anni nella storia d’Italia. Tra grandi luci, ma anche tra tante ombre e errori.



Dopo diciassette anni, l’attuale amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, ha varcato anche lui la porta di quella caserma, per essere interrogato dal magistrato (sei ore) e difendersi dall’accusa di “ostacolo all’attività degli organi di vigilanza” in quel groviglio che è la vicenda di Fonsai (Ligresti) e di Unipol. Quindi nulla di nuovo sotto il sole.
In questo caso, c’è di mezzo un biglietto, un pro-memoria secondo alcuni, un accordo segreto secondo altri, che avrebbe garantito alla famiglia Ligresti una sorta di buona uscita da tutta questa complicata vicenda. E sarebbe stato Nagel a siglarlo. Ma anche in questo caso si potrebbe ribattere che in fondo la storia di Mediobanca è ricca di “patti segreti” e, ancora di più, si potrebbero usare le parole irriverenti e ironiche di un grande banchiere come Francesco Mattioli che, quando parlava di bilanci bancari e di affari bancari, si riferiva in modo irridente a una specie di letteratura di fantascienza.

Ma vivevamo in altri tempi. Dove non si dovevano fare i conti con la crisi economica e finanziaria, con il discutibile comportamento delle banche, ma dove soprattutto i banchieri avevano un’autorevolezza che si erano guadagnati sul campo, magari con mezzi non sempre ortodossi, ma tuttavia efficaci, finalizzati spesso a un equilibrio di potere a volte irritante, ma anche di espansione economica. Oggi sono tempi di crisi, ma anche di crisi di credibilità, non solo della cosiddetta “casta” degli uomini politici, ma anche di quella dei finanzieri e dei grandi banchieri.

Tra la primavera e l’estate, Alberto Nagel è andato incontro a due problemi non proprio indifferenti. Il primo è stato il siluramento di Giovanni Perissinotto alle “Generali”, la grande controllata di Mediobanca, colpevole di aver perso in un anno il 35 percento del valore di quella “perla” del Leone triestino. Ma si potrebbe obiettare che in un anno, il nostro Nagel ha fatto una performance più alta, perdendo il 56 percento. Poi l’amministratore delegato di piazzetta Cuccia si è un po’ ingolfato in questa “dinasty” dei Ligresti. Ci sarebbero da mettere nel conto anche altre considerazioni, ad esempio le perdite di “Che banca!”, l’irruzione nel retail di piazzetta Cuccia. Ma è inutile stare a fare un elenco che deve tenere conto della crisi.

Certo agli analisti attenti fa abbastanza effetto che nel 2003, quando venne “silurato” il delfino di Cuccia, Vincenzo Maranghi, Mediobanca era una delle banche meglio capitalizzate e la più impermeabile alle ragioni delle stock options, dei bonus e dei derivati. Quando Maranghi uscì da piazzetta Cuccia, dopo un periodo di roventi contrapposizioni, Mediobanca aveva in pancia 7,5 miliardi di euro. Ora, a gennaio, Mediobanca è ricorsa al credito alla Bce per lo stesso valore, appunto 7,5 miliardi di euro. Il conto della perdita complessiva la lasciamo fare al lettore.

Ma c’è la crisi, si fa giustamente notare, e Mediobanca non poteva restare immune da questo ciclone planetario. Ci sono tuttavia analisti che sottolineano che la tabella di marcia più rispettata è stata quella del raggiungimento dei bonus da parte dei dirigenti della vecchia banca d’affari. Tempi molto cambiati rispetto a quelli di Enrico Cuccia, quando vincolati ai parametri dell’Iri, i funzionari di Madiobanca si lamentavano tutti perché guadagnavano troppo poco, anche rispetto ad altre banche, certamente meno virtuose, ma soprattutto meno nobili. Sembra tuttavia inutile riferirsi al “passato remoto” di piazzetta Cuccia. Si potrebbe dedurre che così come è cambiata l’Italia e la sua classe politica , così è cambiata anche Mediobanca, è mutata la sua dirigenza, la stessa storia delle banche in Italia. 

Il problema al momento si concentra su un altro fatto. Quale sorte toccherà ad Alberto Nagel dopo la grande scalata di questi ultimi anni, non solo nel dopo- Maranghi, ma anche nel dopo- Geronzi? Qui le voci sono tante e le lingue sono un pochino biforcute. Alcuni grandi azionisti, come il francese Bollorè, hanno già fatto quadrato intorno al management attuale e quindi a Nagel. Corrono voci che sia invece Renato Pagliaro, il presidente di Mediobanca, ad aver manifestato segni di fastidio e anche di abbandono. Ma sono solo voci, rumors, boatos che non hanno alcun peso reale. Il centro del problema è certamente l’inchiesta sull’affare Fonsai, ma è probabile che in questa calda estate finanziaria, quando a settembre, alla viglia dell’autunno si vedranno i soci e si preparerà la consueta assemblea annuale del 28 ottobre, si possa discutere complessivamente la gestione di questi anni di Mediobanca. 

Lì si farà un bilancio definitivo e probabilmente si prenderanno anche delle decisioni. Chissà se peseranno anche i giudizi di alcuni analisti che parlano di Mediobanca come di “una banca mediocre” o l’attacco frontale fatto da Diego Della Valle qualche mese fa: “Questa dirigenza è completamente inadeguata”. Il problema di Mediobanca non è solo una questione giudiziaria.