L’idea di introdurre una patrimoniale non ha mai abbandonato la sinistra. Del resto, si tratta di una delle poche cose che ancora può connotarla come tale. E, considerando che i vincoli europei saranno tali da rendere i margini di manovra per la scrittura dei programmi decisamente risicati, anche una delle uniche che la distinguerà dal centrodestra. Per l’ennesima volta, quindi, è stata posta come una delle priorità di governo. Il Pd, nella sua carta di intenti, ha proposto di introdurla per i grandi patrimoni finanziari e immobiliari. Considerando che già siamo uno dei Paesi con il carico fiscale più elevato e peggio distribuito al mondo, potrebbe non essere una buona idea. Giulio Sapelli, professore di Storia economica presso l’università di Milano, ci spiega perché.



Come valuta l’introduzione di una patrimoniale?

La teoria della fiscalità moderna ci insegna che le imposte devono essere progressive e colpire maggiormente le cose che le persone. Non si può che essere contrari a tutte quelle ipotesi che indeboliscano un Paese già di per sé molto debole.

Cosa intende?

L’Italia, salvo la ricchezza privata delle famiglie (anche se la loro tendenza al risparmio, negli ultimi vent’anni, si è affievolita) è un Paese ove scarseggiano i capitali. Sul fronte industriale, bancario e dei servizi. Storicamente, tra i fattori che hanno maggiormente contribuito a renderci una potenza economica, vi è l’afflusso di capitali stranieri. Introdurre una patrimoniale determinerebbe un regime fiscale sfavorevole all’afflusso che, in questa fase, si rivelerebbe estremamente dannoso.



Non crede che l’attuale regime sia già di per sé particolarmente svantaggioso?

Sicuramente. Ma il problema non è tanto la progressività delle imposte, quanto l’eccesso di fiscalità. Un sistema economico non può crescere se la tassazione sulle imprese è superiore al 30-35%. Oggi, invece, il carico per un’azienda si aggira complessivamente attorno al 65-70%.

In un’ottica di ridefinizione del quadro fiscale potrebbe essere opportuno diversificare la tassazione a seconda dell’attività svolta?

Non vi è dubbio che certe forme di attività finanziarie con obiettivi esclusivamente lucrativi dovrebbero essere tassate di più di quelle che generano ricchezza ed occupazione.



Per il resto, lei cosa suggerisce?

Il modello impositivo dovrebbe essere ripensato con l’obiettivo di favorire gli investimenti. Tutto ciò che indirizza il risparmio verso l’industria dovrebbe essere decisamente privilegiato.

Concretamente, quali misure sarebbero da  adottare?
Sarebbe necessario, per esempio, tassare di meno le obbligazioni emesse dalla imprese, tassare di meno gli investimenti diretti ai fini produttivi, tassare di meno i salari o i cosiddetti profitti capitalistici.

Considerando lo stato dei conti pubblico sarebbe necessario riequilibrare il sistema aumentando da qualche altra parte?

Non direi. Rifiuto, infatti, la teoria del governo secondo cui non è possibile abbassare le tasse. Parto, infatti, dal presupposto che il nostro principale problema non sia il debito pubblico. Esso, infatti, dall’oligopolio finanziario mondiale non è mai stato lentamente preso in considerazione come fattore capace di ostacolare la crescita. Se fosse vero, l’economia del Giappone, (dove il debito pubblico è 250%) dovrebbe essere andata a rotoli mentre quella della Spagna dovrebbe essere in ottime condizioni.

Perché, allora, si insiste sull’idea che sia il debito a frenare la crescita?

Perché c’è un fanatismo ideologico di tipo monetaristico neoclassico che non consente di comprendere che la crescita è un processo molto difficile, ma che avviene consentendo lo sviluppo delle forze produttive; che non devono essere, quindi, penalizzate dalla tassazione.