Il prossimo appuntamento di Mediobanca sarà per fine ottobre all’assemblea annuale dei soci. Si dice che dovrebbe essere “infuocata”, ma in realtà si può essere certi che non accadrà nulla e ci saranno solamente alcuni solitari che, calcolando le loro perdite, solleveranno qualche problema dialettico, nulla di più. Mercoledì, l’Amministratore delegato di piazzetta Cuccia ha presentato il bilancio chiuso il 30 giugno. I conti sono lì a fornire uno specchio della situazione finanziaria a livello mondiale e italiano.



Il bilancio si chiude con un positivo di 81 milioni, rispetto ai 369 dell’esercizio precedente. Viene confermato il dividendo, in calo da 17 centesimi per azione a 5 centesimi. Quasi un fatto simbolico, come ha detto Nagel, giusto per far comprendere che Mediobanca garantisce sempre la cedola.

C’è solidità patrimoniale, si dice, anche se ci sono state svalutazioni per 573 milioni: 191 milioni tra Telco e Rcs, 132,7 sui caches Unicredit, 141,1 milioni sui bond greci. Nagel ha risposto agli analisti in questo modo: “Siamo convinti che dovremo ridurre la nostra esposizione sui titoli azionari perché danno troppa volatilità al risultato netto. Nei prossimi mesi, quando la situazione dell’euro sarà più chiara, daremo indicazioni al mercato su cosa vogliamo fare dell’equity”.

Per fornire un quadro complessivo dell’atmosfera di Mediobanca ci sono le dichiarazioni di Tarak Ben Ammar, il portavoce dei soci esteri, alla fine del board di Mediobanca: “Dietro il management c’è l’unanimità del consiglio e degli azionisti. Nagel resterà a lungo amministratore delegato, perché c’è fiducia in Nagel e in tutto il management, con il quale siamo in sintonia per compattezza e visione strategica”.

Sembra un’atmosfera idilliaca. Sembra che tutta la matassa aggrovigliata legata al caso Fonsai, alle questioni relative alla famiglia Ligresti, al famoso “papello” che ha messo Nagel sotto l’occhio della magistratura, non esista più, sia completamente dimenticato, o quanto meno accantonato.

Si può essere d’accordo con il fatto che, in una situazione economica e finanziaria come quella che si sta vivendo, i conti di Mediobanca possano anche essere accettati, difficile dire accettabili. In effetti c’è qualche socio che non è poi molto d’accordo, ufficiosamente s’intende. Ma da qui a pensare, con quello che è accaduto quest’anno, tra Generali e Fonsai, che tutto sia messo “sotto un tappeto” ce ne corre.

Ci si domanda che cosa in realtà sia accaduto nelle stanze di piazzetta Cuccia e come sia stato tutto sistemato sull’asse tra Trieste e Milano, dopo il “dimissionamento” dal Leone di Trieste di Alessandro Perissinotto. È ipotizzabile che qualche “mistero finanziario” sia a conoscenza di pochi eletti. Tuttavia si può immaginare che in questo momento prevalga una sorta di realpolitik, che salvi soprattutto l’immagine di Mediobanca e cerchi di dimostrare la solita compattezza all’esterno della banca d’affari italiana. Con la possibilità reale che i grandi soci del “patto di sindacato” di piazzetta Cuccia tengano strettamente “sotto tutela” l’attuale management. In fondo si può governare Mediobanca anche dal “patto di sindacato”, forse non è più necessario, in un momento come questo, occupare le poltrone del management.

Che cosa trarre da tutto questo? Il meno che si possa dire è una grande saga dell’ipocrisia.