Il Rapporto “Italia, dare slancio alla crescita e alla produttività” dell’Ocse è uno dei lavori che l’organizzazione internazionale con sede a Parigi pubblica periodicamente sulla trentina di Stati che ne fanno parte. È un documento snello che di solito viene letto dai dicasteri economici dei Paesi interessati e utilizzato dai giornalisti perché presenta dati e statistiche in modo di più agevole consultazione dei compendi pubblicati dagli uffici centrali nazionali di statistica e dall’Eurostat.
Quest’anno la presentazione del Rapporto e stata l’occasione per prendere il polso allo stato e alle prospettive delle riforme attuate e in cantiere da quando il Governo Monti e in carica: un seminario di studio di un’intera giornata con grande spolvero di Ministri e di Direttori generali, nonché di qualche accademico. I punti salienti sono stati presentati da agenzie di stampa e da televisioni. Il seminario poteva dare l’apparenza di un grande spot per il Governo. Tuttavia c’è poco da essere lieti nel prevedere una crescita del Pil di 4 punti percentuali dal 2014 al 2024 (pari quindi allo 0,33% l’anno) dopo una contrazione di 14 punti percentuali dal 2008 al 2014. Il documento, poi, sostiene che le riforme sono state “iniziate” e si augura che vengano “attuate”. Inoltre, il Rapporto ignora comparti in disperato e urgente esigenza di riforma, come la giustizia, specialmente quella civile.
Ma andiamo al punto: prima superare la crisi e poi fare le riforme, oppure viceversa? Pare l’inizio della commedia “Prima le parole, poi la musica” dell’Abate Casti messa in musica, a fine Settecento, da Antonio Salieri. È, invece, il tema centrale di un dibattito tra “scuole di pensiero” economico in questi anni.
Un testo di culto della sinistra riformista – “Come far passare le riforme” di Albert Hirschman (scritto negli anni ’60, ma pubblicato in italiano da Il Mulino nel 1990) – sostiene che le riforme necessitano di anni di vacche grasse, in quanto i riformatori devono disporre di risorse con cui compensare le categorie danneggiate (anche quando il danno altro non è che una perdita di privilegi). A conclusioni analoghe era giunto il liberista Mancur Olson in “The Logic of Collective Action: Public Goods and the Theory of Groups” pubblicato negli Usa nel 1965 ma tradotto in italiano da Feltrinelli nel 1990. La bassa crescita economica dell’Italia e le severe restrizioni finanziarie sono state addotte (dai Governi dell’epoca – dalla primavera 1996 a quella 2001 e dalla primavera 2006 a quella del 2008) come ragioni per posporre riforme o fare marcia indietro su alcune di quelle annunciate (il caso più evidente è la previdenza).
Con la crisi finanziaria che s’inasprisce e la stagnazione che diventa recessione siamo in una situazione analoga? Non necessariamente. Già nel 1991, in un libro a quattro mani (G. Pennisi e G. Scanni, “Debito, crisi, sviluppo”, Marsilio) venne dimostrato che in numerosi paesi la crisi del debito estero dell’ultima fase degli anni ‘80 è stata la molla per riforme, spesso coraggiose, quasi sempre predisposte da anni; documentammo anche che tali riforme avevano successo se “socialmente compatibili”.
Pochi mesi dopo, tra il settembre 1992 e il marzo 1993, a fronte di una crisi tale da comportare il deprezzamento del 30% della lira, il Governo Amato attuò un programma di riforme drastiche (previdenza, mercato del lavoro, pubblico impiego). Analogamente, nella primavera 1995, quando la lira traballava e si temeva per l’ingresso dell’Italia nell’euro, il Governo Dini riuscì a far salpare la riforma della previdenza in cantiere sin dal 1978 (“Commissione Castellino”). Ancora, le riforme del mercato del lavoro, degli incentivi industriali, del bilancio dello Stato e l’inizio di quelle della scuola e università sono state varate negli “anni difficili” che hanno fatto seguito all’11 settembre 2001.
Per Governo e Parlamento, quindi, la crisi finanziaria ed economica dovrebbero – come affermava una vecchia pubblicità – mettere un turbo del motore delle riforme, specialmente di quelle “socialmente compatibili”. In primo luogo, tornare allo spirito iniziale del riassetto della previdenza, utilizzando eventuali risparmi per ammortizzatori sociali per i più deboli. In secondo luogo, attuare a pieno la modernizzazione della Pa per renderla più efficiente e più efficace. In terzo luogo, rivedere, una volta per tutte, contabilità speciali e fuori bilancio (spesso fonte di privilegi corporativi) e, se del caso, chiuderle. In quarto luogo, rompere con il “contratto unico” le barriere tra i precari e gli altri. Sono solamente prime indicazioni. Il dibattito è aperto.
Lo stesso studio comparato Ocse che ha fornito lo stimolo al seminario avverte che, in tempo di contrazione economica, le riforme strutturali dovrebbero seguire un’agenda ben concepita, iniziando da quelle che più promettono in termini di spinta alla crescita e hanno meno impatto sul sociale (anche al fine di contenere populismi di vari tipi e colori). Ciò significa liberalizzare i mercati dei prodotti e dei servizi prima di tentare di mettere ordine nel mercato del lavoro, nella previdenza e nella sanità Ciò vuole anche dire approntare un rete universalistica di tutele sociali (in italiano, un’effettiva riforma degli ammortizzatori).
Senza dubbio la “riforma Fornero” segue in parte questi principi nelle materie di propria competenza, ma occorre chiedersi se le liberalizzazioni promesse dal Cresci-Italia (ma attuate in modo molto pallido) non avrebbero dovuto precedere le misure su mercato del lavoro, e previdenza sociale e se la “stangata” tributaria agevola o frena le riforme.