L’Italia ce la farà da sola, senza l’aiuto dell’Europa. Nel giorno in cui la Borsa di Milano perde il 3,3% e lo spread Btp-Bund risale a quota 375 punti base, l’ottimismo per il nostro Paese arriva nientemeno che da Francoforte. Nella città tedesca si è infatti tenuto un incontro tra il Presidente della Bundesbank, Jens Weidmann (che non ha mai nascosto la propria avversità alle scelte fatte dalla Bce di Mario Draghi e a ogni forma di salvataggio dei paesi europei in difficoltà), e il ministro dell’Economia italiano, Vittorio Grilli. Secondo Weidmann, l’Italia è abbastanza forte, i suoi fondamentali economici sono buoni e pertanto non avrà bisogno di alcun pacchetto di aiuti. Gli ha fatto eco Grilli, spiegando che il Governo non ha al momento intenzione di chiedere aiuti, dato che ritiene di riuscire a risolvere i problemi italiani entro la fine del proprio mandato. Marco Fortis, economista e vicepresidente della Fondazione Edison, spiega a ilsussidiario.net di ritenere «importante questo “attestato” che arriva da un esponente istituzionale della Germania. Paese che, se è veramente coerente con quel che professa, può diventare il più grande testimonial dell’Italia. Siamo infatti gli unici che stanno facendo quello che Berlino chiede a tutti: sacrifici veri e, soprattutto, riordino effettivo dei conti».



Cosa pensa delle parole di Weidmann?

Il fatto che il presidente della Bundesbank dica che l’Italia è forte e ce la può fare da sola rappresenta un messaggio molto importante. Certamente, dato che non ha mai nascosto di non gradire gli interventi della Bce, ha un interesse particolare nel fare queste affermazioni: se, infatti, l’Italia ce la fa da sola, allora la Bce non deve mettere risorse in campo. Le dichiarazioni possono quindi essere lette in due modi. Tuttavia, non so se Weidmann spenderebbe parole simili per la Spagna.



Al di là di quel che ha dichiarato Grilli, crede che l’Italia dovrebbe chiedere gli aiuti all’Europa?

La fase è estremamente incerta e delicata e bisognerà capire cosa effettivamente intende fare la Spagna. La situazione è paragonabile a una partita a poker in cui, sino all’ultimo, non vengono calate le carte. Va comunque riconosciuto che le dichiarazioni seguite all’incontro tra Weidmann e Grilli vanno a supportare la percezione di un Paese che non è uno sbando. Che ha una recessione drammatica, dovuta però alla cura da cavallo che sta facendo e senza la quale si sarebbe trovato in cattive acque alla fine dell’anno scorso.



Secondo il Presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, dovremmo chiedere gli aiuti, giocando d’anticipo, in modo da scriverci da soli le condizioni per ottenerli.

Credo che logica che ha ispirato Squinzi sia animata, anzitutto, dall’incertezza in merito alle prossime elezioni; per cui afferma che tanto varrebbe applicare le condizioni cui ci sottoporrebbe l’Unione europea, perché non solo beneficeremmo del sostegno finanziario, ma metteremmo anche, e soprattutto, una sorta di ipoteca sulla strada per le riforme. Non è escluso, infatti, l’avvento di forze politiche sfiorate da motivazioni populiste che possano rovesciare la strategia sin qui avviata e che ci ha portato, in questi mesi, a cercare di recuperare credibilità in Europa e perseguire un percorso di rigore. Attraverso l’idea di Squinzi, fisseremo, di fatto, un percorso obbligato.

Sui mercati, però, visto quel che è successo ieri, sembra finita l’ondata di ottimismo.

Le notizie che arrivano dalla Spagna, con tanto di richiesta di un referendum indipendentista da parte della Catalogna, hanno fatto sentire il loro peso sui mercati, insieme alle dichiarazioni di Charles Plosser, Presidente della Fed di Philadelphia, secondo cui il nuovo piano di quantitative easing presentato da Ben Bernanke si rileverà inefficace. Sui mercati sembra quindi ritornata la paura. Bisogna vedere se è una paura vera come quella dei mesi scorsi o è semplicemente un momento di passaggio, in cui si è magari aperta qualche crepa nella roccaforte che Draghi ha costruito quest’estate, ma non in grado di modificare in maniera sostanziale la situazione e riportarci indietro nel tempo.

 

In ogni caso, aver dato l’ok al Fondo salva stati e il via libera alla possibilità per la Bce di acquistare illimitatamente titoli di Stato, non avrebbe dovuto essere sufficiente a frenare la speculazione?

 

Nel breve periodo, l’obiettivo, è stato raggiunto; per quanto riguarda lo spread e ancor più per quanto riguarda i tassi di rendimento, che si sono notevolmente abbassati. Tuttavia, i mercati internazionali sono dominati da atteggiamenti che rasentano la schizofrenia. Anche a causa di luoghi comuni sul nostro Paese diffusi e sedimentati da anni. Che, in parte, noi stessi abbiamo contribuito ad alimentare con una politica comunicativa fallimentare. Mentre chiunque, infatti, cerca di vendere il proprio Paese al meglio, nel nostro sistema si è sempre fatto l’opposto. Poi, per forza non riusciamo a piazzare i titoli di Stato se, da anni, in Italia, si continua a diffondere la percezione che siamo sull’orlo del baratro. Sarebbe, quindi, opportuno iniziare a spiegare quali siano le reali condizioni in cui si trova il nostro Paese.

 

E quali sarebbero?

 

Tanto per cominciare, va detto che il nostro debito pubblico, benché sia gigantesco, non è significativamente superiore a quello degli altri Paesi avanzati; se, vent’anni fa, eravamo, assieme al Giappone, la pecora nera, negli ultimi tempi anche i debiti sovrani di tutti gli altri Stati sono esplosi, accostandosi alle nostre percentuali; raggiungendo o superando il 100% del Pil. Inoltre, mentre i debiti degli altri esplodevano, in certi casi raddoppiando, il nostro, per quanto elevato, ha subito incrementi modesti. Quindi, rispetto a questo parametro, ci troviamo in una situazione analoga a quella delle altre nazioni industrializzate.

 

Però, noi siamo in recessione. Il nostro Pil è più basso di quello degli altri paesi.

Nel nostro caso, il Pil è un parametro estremamente riduttivo. Nei dati contenuti nel primo Fiscal monitor diffuso dal Fmi, nel 2010, era presente un grafico che mostrava la previsione dell’andamento del rapporto tra debito pubblico e ricchezza finanziaria delle famiglie per paesi aggregati della zona euro; ciò significa che, già allora, al Fmi, c’erano persone che avrebbero potuto spiegare che il debito pubblico si può rapportare non solo al Pil, ma anche alla ricchezza privata. Quest’anno, poi, sono usciti i dati relativi alla situazione dei singoli paesi. Scopriamo che, nel primo trimestre 2012, il rapporto tra il nostro debito pubblico e la ricchezza finanziaria delle famiglie, è al 74%, come quello di Francia e Germania, mentre la Spagna è al 99%. Se, invece, dovessimo contemplare anche la ricchezza immobiliare, avremmo il rapporto più basso dell’Occidente. C’è un altro parametro che andrebbe tenuto in considerazione.

 

Di cosa si tratta?

 

Occorrerebbe commisurare il debito alle entrate fiscali. Esse rappresentano, infatti, l’unica componente del Pil in grado di contrastare realmente il debito pubblico; altre sue componenti, quali la produzione industriale, sono utili indicatori nella misura in cui riescono a generare gettito fiscale. Quindi, tanto vale prenderlo direttamente in considerazione. Così facendo, scopriamo, ad esempio, che il rapporto tra debito pubblico Usa e Pil è al 110%; ma, rapportato alle entrare fiscali (gli americani sono abituati a non pagare più del 32-33% di tasse) salta fuori un dato del 300%. Quello dell’Italia, che fino a pochi anni fa era al 230%, è oggi al 250%. Ciò significa che l’Italia ha alle spalle una ricchezza tale da potere sopportare eventuali aggravi fiscali o inasprimenti della crisi. Sono questi i dati reali che andrebbero comunicati, anche in maniera aggressiva, ai mercati.

 

(Paolo Nessi)

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