Misure urgenti sulla flessibilità e sul costo del lavoro. Altrimenti si dovranno rivedere gli obiettivi del piano industriale. Sulla prima pagina di Le Figaro campeggiano le richieste di Carlos Ghosn, pdg di Renault e di Nissan, al Governo (che è pure suo azionista al 15%) e alle Parti sociali. Una doccia fredda per Arnaud Montebourg, ministro socialista che dirige il dicastero del “redressement industriel”, la cabina di regia che dovrebbe conciliare la diversità francese con l’efficienza.
Intanto Michael Fallon, neo ministro del Business di Sua Maestà britannica (anche i nomi dei dicasteri hanno un valore nella complicata mappa della politica europea), arrivava al salone parigino dell’auto alla guida di un’agguerrita e sorridente squadra di manager: l’Inghilterra, dove operano con successo, nuovi investimenti e posti di lavoro aziende tedesche, indiane, giapponesi, francesi e così via, ha lanciato qui il piano “Tier One”, ovvero il progetto per attrarre a Nord della Manica i più importanti fornitori di componenti per auto. Salvo colpi di sorpresa, anche i coreani di Kia e Hyundai, oltre ai cinesi, sceglieranno Londra come quartier generale per il Vecchio Continente, grazie al costo del lavoro conveniente (23 euro l’ora, contro i 28 italiani e i 45 francesi) e alla flessibilità garantita dalle Unions. A Ellesmere, dove Gm trasferirà la produzione dell’Opel Astra, si lavorerà 51 settimane all’anno. Dallo stabilimento Nissan di Sunderland, il più efficiente del gruppo giapponese nel mondo, usciranno quest’anno più di 700 veicoli, il doppio circa della produzione italiana. E i sindacati di Jaguar Land Rover sono pronti a fare anche di più in cambio dell’impegno della proprietà, l’indiana Tata, a non trasferire la produzione in India, Brasile o nel nuovo impianto in Arabia Saudita.
Marciano su Parigi anche i generali di Volkswagen. Il mitico Ferdinand Piech si concede una battuta crudele sull’Alfa Romeo: “Abbiamo tempo…”. Più minaccioso il direttore finanziario Dieter Poetsch: “Per almeno due anni non ci sarà ripresa” E aggiunge: “Credo che qualche produttore non ce la farà. A meno che non intervenga lo Stato”.
Forse è il caso di riflettere su questo succinto e parziale riassunto delle posizioni che stanno emergendo nell’industria europea dell’auto, prima di render conto delle nuove dichiarazioni di Sergio Marchionne, che tanto nuove poi non sono. Ma hanno il pregio di far chiarezza dopo la comprensibile confusione delle polemiche nostrane, per la verità un po’ provinciali e datate se si guarda a quel che avviene nel mondo.
L’ad di Fiat e Chrysler ha ribadito ieri che “la Fiat non intende chiedere aiuti di Stato per l’auto”. Anche perché sa benissimo che l’Italia non ha soldi e che l’Ue, sotto la pressione dei tedeschi, non acconsentirà mai a deroghe in tal senso. In questo modo ha corretto l’infelice dichiarazione fatta una settimana fa, alla vigilia dell’incontro con l’esecutivo, quando sottolineò che “in Brasile la Fiat va bene perché là ci sono gli aiuti”. In realtà, la Fiat va bene perché si muove in un mercato dinamico e protetto dagli stimoli votati da Dilma Roussef.
L’ad del Lingotto, inoltre, ci fa sapere che “la Fiom non c’entra niente con la decisione di cancellare Fabbrica Italia”. La ragione sta in condizioni di mercato pessime, per giunta imprevedibili. E in questo caso torna preziosa la testimonianza di Carlos Ghosn di Renault, tra l’altro diviso da Marchionne da cordiale antipatia. Anche il gruppo francese potrebbe rivedere i progetti a causa di una crisi che è molto più grave di quel che non appariva anche solo alla fine della primavera. Una testimonianza preziosa perché, a differenza di Fiat, Ghosn ha puntato su una robusta gamma di nuovi modelli con l’obiettivo di rubare spazi di mercati nell’alta gamma ai tedeschi. Ora, però, anche lui frena. E, soprattutto, pone al Governo e alle Parti sociali il tema della competitività del sistema industriale francese, poi non così diverso nelle sue criticità da quello italiano.
Insomma, dal primo approccio al salone parigino emerge che: 1) l’industria dell’auto latina è la punta dell’iceberg di un problema di competitività che tocca l’intero apparato economico; soffre in Francia, soprattutto dove i produttori nazionali (vedi Peugeot) non hanno puntato per tempo su nuovi mercati; soffre in Italia, dove il produttore nazionale ha bruscamente chiuso i cordoni della borsa, ma, fatto ben più grave, ha in pratica spostato la parte più viva dell’azienda altrove (ormai il centro ricerche sta a Betìm, Brasile, e ad Auburn Mills, Michigan); soffre in Spagna, dove la crisi del mercato minaccia di travolgere gli sforzi Volkswagen per Seat; 2) La Germania aspetta sulla riva del fiume che passino i cadaveri dei concorrenti, Psa e Fiat in testa (ma anche Opel) e nel frattempo cerca di accelerare il loro decesso con una politica commerciale aggressiva, resa possibile dal denaro a costo zero della Bce cui può accedere Volkswagen Bank (al pari di Bmw e Daimler).
In questo quadro, per Fiat, la via maestra per sfuggire all’accerchiamento passa per Detroit. In questi giorni si deciderà, in tribunale, il prezzo delle azioni Chrysler che il sindacato Uaw cederà a Fiat. Un accordo tra le parti non è stato possibile perché i dirigenti del sindacato non intendono fare regali. Marchionne, dal canto suo, impugna un contratto capestro strappato alla controparte al momento dell’ingresso, quando ben pochi pensavano che l’azienda di Detroit avrebbe avuto un futuro (e così pure Fiat). Il risultato è che, nel calcolo del valore di Chrysler, si è deciso che le azioni dell’azienda di Detroit non possano valere più dell’ebitda del Lingotto.
Particolare non da poco che spiega perché Marchionne preferisce tenere in cassa tanti quattrini invece che fare investimenti dal ritorno dubbio in Italia: avere tanta liquidità riduce il debito finanziario netto con la conseguenza che si abbassa la valutazione dell’azienda (l’enterprise value dipende dalla somma del valore dell’equity e del valore assoluto del debito finanziario netto). Siccome il valore dell’azienda si può calcolare come multiplo dell’ebitda, insomma, Marchionne con la cassa non solo si mette al riparo dalle turbolenze, ma tiene basso il valore di esercizio per salire in Chrysler.
Perdonate il ragionamento tecnico che serve però a spiegare che c’è una strategia comune che unisce i destini di Detroit e di Torino. Solo una Fiat al 100% di Chrysler (comprata al prezzo minore) ha possibilità di sopravvivere sia che arrivino aiuti o sostegni diretti e indiretti all’export (graditissimi), sia che il gruppo debba farne a meno. Così come è successo a Renault. “Nissan ha salvato Renault – dice Ghosn – così come Renault ha salvato Nissan”. Speriamo che la storia si ripeta. Nel frattempo, meno insulti reciproci. E qualche dossier all’inglese in più. Please.