Come il recente dibattito sullo scudo anti-spread ha evidenziato, uno degli aspetti più bizzarri di questa crisi è la familiarità che di colpo acquisiamo con termini solitamente riservati agli addetti ai lavori. Tutto cominciò con i subprime del 2007 e da allora la crisi è avanzata a colpi di spread, Cds, swaps e fiscal cliffs… Ultimamente il dibattito si è arricchito di un nuovo termine e di una scia – se mai ce ne fosse ancora bisogno – di polemiche correlate.



Sul banco degli imputati è salito il Target 2, il sistema di regolamenti che gestisce i pagamenti all’interno dell’eurozona e al centro di una polemica che in Germania sta assumendo toni esacerbati ci sono le discrepanze generate, a detta di alcuni economisti, dal funzionamento di tale sistema. Secondo alcuni istituti di ricerca tedeschi (Ifo Institute di Monaco e Iees di Osnabruck), il Target 2 costringerebbe il governo di Berlino a sovvenzionare le finanze pubbliche di Spagna, Grecia, Italia, Irlanda e Portogallo, “a scapito del credito concesso all’economia tedesca” come è arrivato a dichiarare il professor Hans-Werner Sinn. La polemica ha concesso uno scampolo di notorietà all’accademico e con questa ci auguriamo che il professor Sinn possa compensare l’esclusione dal cda di HypoVereinsbank, avvenuta dopo l’acquisizione dell’istituto tedesco da parte di Unicredit.



Per tornare al Target 2, alcuni punti meritano di essere chiariti, perché sul sistema dei pagamenti si riflette un dibattito che ha molto da dirci sul futuro dell’Unione europea. Implementato nel 2007, l’attuale Target 2 è impiegato dalle banche centrali dei 17 Paesi membri dell’eurozona che lo utilizzano come una rete di pagamento sotto la supervisione della Bce (di cui le 17 banche nazionali sono, giova ricordarlo, il braccio operativo sul territorio).

Un esempio aiuta a comprenderne il funzionamento. Nel momento in cui un imprenditore di Treviso acquista una pressa idraulica da un fornitore basato a Dortmund, quest’ultimo riceve un bonifico dal conto corrente dell’acquirente. Il pagamento parte da una banca italiana e raggiunge il conto del fornitore, presso un istituto di credito tedesco. Per effetto di questo trasferimento, il saldo di cassa detenuto dalla banca italiana presso Banca d’Italia diminuisce, mentre il “conto corrente” della banca tedesca presso la Bundesbank è accreditato dello stesso importo.



L’insieme dei “conti correnti” detenuti dagli istituti di credito presso le banche centrali nazionali e i flussi di cassa tra tali conti sono in sostanza il Target 2. Come hanno di recente dichiarato T.A. Lubik e K. Rhodes, due economisti della Federal reserve, in una pubblicazione su cui torneremo, la Bce è in buona sostanza il Target 2, cioè una rete di connessione tra le diverse banche nazionali. E spingendo il ragionamento un passo oltre, si può affermare che il Target 2 è la vera cinghia di trasmissione delle politiche monetarie Bce.

Perché allora tutto questo trambusto tra gli economisti tedeschi? Perché nella non proprio bucolica Unione europea, succede che un Paese su tutti, la Germania (guarda a caso!), è di gran lunga il principale esportatore tra i confini della zona euro. E un po’ come accade tra le due sponde del Pacifico, con gli Usa importatori e indebitati e la Cina esportatrice e ricca di riserve monetarie, l’export tedesco mantiene costantemente positiva la bilancia dei pagamenti tra Berlino e i paesi importatori. In altre parole, le presse idrauliche, i trattori, le materie plastiche e i dispositivi elettronici che la Germania esporta ogni mese tra i confini dell’Eurozona finiscono col rimpinguare i conti Target 2 presso la Bundesbank.

Qualche numero? Dall’introduzione della moneta unica, le esportazioni tedesche sono più che raddoppiate fino a raggiungere i 1.500 miliardi di euro a fine 2011 e i saldi mensili sembrano confermare il valore per il 2012. Notevole anche la discrepanza tra i conti Target 2, con una precisazione e una sorpresa. Precisazione: la Bce non rilascia cifre ufficiali sull’ammontare di tali conti, ritenendo in buona sostanza che le differenze nazionali non abbiano rilevanza e che, quando esse l’abbiano, siano competenza esclusiva dei tecnici Bce. È il già citato centro studi Iees a fare i conti in tasca al Target 2, segnalando, e qui arriva la sorpresa, un saldo positivo tedesco pari a 750 miliardi di euro (stime a fine luglio 2012). Tra i conti in negativo, invece, troviamo Spagna, Irlanda, Grecia, Portogallo, Francia (quest’ultima sempre stata in leggero deficit) e Italia.

Piccolo indizio su cui riflettere (soprattutto a Berlino): il saldo italiano è stato positivo (e a tratti secondo solo a quello tedesco) fino all’estate 2011, quando comincia a declinare in concomitanza alla crisi del debito pubblico (come si vede nel grafico qui sotto).

 

 

A suggerire che le discrepanze tra i conti siano il risultato di fenomeni economici di più ampia portata sono i ricercatori Fed Lubik e Rhodes; questi, studiando le mutevoli discrepanze tra la Federal reserve di Richmond (distretto est) e quella di New York (sede centrale, equivalente a Francoforte), concludono che a muovere i bilanci siano le economie dei distretti e le variazioni sui mercati finanziari nazionali e internazionali. Nel caso Fed, a riequilibrare le differenze interviene un meccanismo di solidarietà tra banche federali che in alcuni casi prevede scambi di titoli e oro. Ispirandosi vagamente a tale meccanismo, l’economista Sinn ritiene che i Paesi in deficit dovrebbero saldare il conto consegnando le proprie riserve auree alla Germania…

Ma per non perdersi in una diatriba contabile tra storni, crediti, teorie deliranti e partita doppia è meglio puntare diretti alla questione fondamentale che il Target 2 pone: se il mercato è unico e i paesi membri sono diciassette, la cassa è una o ce ne sono diciassette?

Un dato aiuta a rispondere. Fino all’estate 2008 i saldi sui conti Target 2 erano prossimi allo zero. Le grandi riserve accumulate dalle banche dei paesi esportatori intra-Ue erano investite nel debito pubblico dei paesi importatori (Grecia, Spagna, Irlanda e Portogallo) e in tal modo, lontano dall’essere ottimale, il modello economico europeo mostrava un livello sufficiente di stabilità. Quando a fine 2011 le banche europee aprirono i propri libri contabili per il secondo stress test, la causa delle discrepanze nei flussi tra paesi Ue fu piuttosto chiara: delle 65 banche con titoli pubblici “Gipsi” (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia) a bilancio, 55 avevano ridotto la propria esposizione per un totale di 65 miliardi di euro e, tra queste, Bnp Paribas, Deutsche Bank, Crédit agricole e Rbs avevano immesso sul mercato secondario, da sole, quasi 30 miliardi di euro in obbligazioni di stato.

Oggi tra i paesi membri manca la fiducia per investire oltre i confini nazionali e le discrepanze del Target 2 ne sono il segno più evidente. Certo, bisogna ancora fare i conti con la crisi, ma un’Unione europea in questi termini, prima ancora che insostenibile, non è un’unione.

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