Marchionne ha tutte le ragioni del mondo per brindare. Se ieri i dati sul mercato automobilistico italiano, con un -20% rispetto alle vendite dello scorso anno, definivano il peggior andamento mai ricordato – come aveva sottolineato lo stesso ad Fiat – i dati di oggi descrivono una situazione del tutto differente. Ma negli Usa. Dove le vendite di agosto di Chrysler Group hanno registrato un rialzo del 14% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, pari a 148.472 vetture vendute. Il miglior risultato dall’agosto del 2007 e il ventinovesimo mese consecutivo di crescita. A renderlo noto è stato la controllata di Fiat che ha sottolineato come tutti i marchi del gruppo – Chrysler, Jeep, Dodge, Ram Truck – abbiamo goduto di un rialzo nelle vendite. Gianni Gambarotta, giornalista economico e profondo conoscitore del Lingotto, ci spiega perché i due rami della casa torinese stanno avendo andamenti così differenti.



Da cosa dipende un tale divario tra Italia e America?

Il mercato dell’auto, in Europa e, specialmente, in Italia, è messo tutt’altro che bene. Le dinamiche economiche Usa, invece, sono leggermente migliori di quelle europee e decisamente migliori di quelle italiane. Fiat non fa altro che risentire di tale contingenza. Tanto più se consideriamo il fatto che la sua quota di mercato in Europa, escludendo l’Italia, è pressoché irrisoria. In Italia il mercato va male perché i consumi segnano andamenti negativi in tutti i settori. La crisi, da noi, è palpabile e reale; gli Usa, benché non siano in espansione, si trovano in una situazione decisamente meno grave.



Quanto ha inciso l’operato di Marchionne sull’andamento di Fiat e di Chrysler?

Quando Marchionne è arrivato in Fiat ha salvato un gruppo destinato ad un fallimento pressoché certo. Lo ha salvato, in particolare, dal punto di vista finanziario. Agendo sui costi attraverso una serie di tagli drastici. Operazione che, necessariamente, ha sacrificato gli investimenti. Anche per questo Fiat, negli ultimi anni, non è stata in grado di produrre modelli nuovi in grado di competere con gli avversari. In Chrysler, invece, dal momento che ha ricevuto dei finanziamenti pubblici per salvarla, è stato più o meno obbligato a investire in innovazione e nuovi prodotti. Non dimentichiamoci, del resto, che tali investimenti rappresentavano anche la condizione necessaria per poter scalare l’azienda.



In ogni caso, svariati operatori europei hanno scelto di continuare a investire nel Vecchio Continente e incentivare la produzione.

Va detto anche che, effettivamente, Marchionne non ha mai nascosto di essere convinto che l’Europa sia un continente in declino.  

I problemi con i sindacati, invece, sono determinanti o secondari?

Se il mercato del lavoro italiano non fosse connotato dalla ben nota assoluta assenza di  flessibilità, il mercato automobilistico, probabilmente, continuerebbe a essere depresso; tuttavia, sarebbe minore la tendenza a spostare all’estero la produzione.

In che modo i risultati di Chrysler potrebbero incidere sulla Fiat italiana?

Temo in maniera negativa. I dati, infatti, confermano la tesi da sempre sostenuta da Marchionne in base alla quale condizioni di maggior flessibilità consentono di ottenere dei risultati apprezzabili. Marchionne si sentirà suffragato nel dire che, in Italia, non è possibile mantenere la produzione. 

 

 

(Paolo Nessi)