Materia per una coppa di champagne, tanto per festeggiare un anno che, almeno sui mercati finanziari, è partito alla grande ce n’era in abbondanza. Sei mesi fa una buona parte della stampa specializzata, assieme ad una folta pattuglia di grandi gestori, dava l’euro per spacciato. Intanto lo spread di Italia e Spagna, per non parlare dei credit default swaps che ritenevano l’Italia un posto assai meno sicuro della Bulgaria, segnala l’imminenza dello sfaldamento dell’Unione Europea. Ora, al contrario, la periferia ha accorciato le distanze dall’Europa “core”, al punto che nessuno parla più dell’eventualità di un euro di serie A e di uno di serie B. l’Italia apre l’anno del debito con un rendimento dei Bot annuali da prefisso telefonico, sotto l’1%. E Piazza Affari, per il terzo giorno di fila, è la miglior Borsa europea. Insomma, Mario Draghi, aveva il diritto di inaugurare l’anno finanziario con una nota di soddisfazione.
Al contrario, ha preferito, a ragione, soffermarsi sul bicchiere mezzo vuoto, ovvero le condizioni ancora assai difficili dell’economia reale. Al momento rimangono prevalenti i rischi di un peggioramento dell’economia, ha detto Draghi, ed è cruciale che i governi continuino nell’opera di consolidamento dei conti pubblici, di rafforzamento dei rispettivi sistemi bancari e di varo delle riforme strutturali. Di più Draghi non ha voluto né potuto dire: l’economia reale soffre e soffrirà almeno fino alla fine del 2013. L’occupazione, nel migliore dei casi, ripartirà in maniera convincente qualche mese più tardi, a meno che la classe politica dei vari Paesi, Italia in testa, non getti alle ortiche l’occasione della ripresa.
Ma la banca centrale non può indicare all’opinione pubblica un obiettivo da perseguire con tutte le energie possibili. Eppur, come si è visto nel caso dello spread (o, prima ancora, ai tempi della convergenza verso la moneta unica) solo quando un problema può essere drammatizzato agli occhi dell’opinione pubblica in termini agonistici, si possono mobilitare con successo gli animal spirits dei contribuenti e dei cittadini. Ma, a differenza della banca centrale americana, la Bce non ha un mandato specifico sull’occupazione. E non può collegare in maniera esplicita la sua azione di banchiere centrale all’abbattimento del tasso di disoccupazione. Draghi, insomma, non può giocare d’attacco. Ma, per sua fortuna, la frenata della locomotiva tedesca, che secondo le anticipazioni dovrebbe aver registrato un brusco rallentamento nel quarto trimestre, lo mette al riparo da pressioni della Bundesbank sul fronte dei tassi: la Germania non può permettersi un aumento del costo del denaro anche se i prezzi dell’energia, spinti dalla ripresa cinese, puntano verso l’alto, con effetti rilevanti per l’inflazione.
Il 2013, cosa che spiega in parte la cautela di Draghi, promette di essere un anno pieno di insidie: la ripresa americana e quella giapponese, per non parlare della sorpresa del recupero cinese, avranno effetti robusti sul prezzo delle materie prime. L’industria Usa, in pieno recupero, rischia di diventare un concorrente assai temibile per la Germania.
A favorire il recupero di competitività contribuisce il basso prezzo di petrolio e gas reso disponibile dalle nuove tecnologie fracking, quelle che l’Europa ha rifiutato fin dall’inizio in nome delle minacce ambientali. Nel frattempo il Giappone ha ormai pigiato l’acceleratore sul processo di svalutazione dello yen, che presto provocherà una risposta da parte americana. Ma anche di Paesi come il Brasile, pronti a giocare l’arma delle barriere doganali contro l’ingresso di capitali speculativi. L’euro, insomma, rischia di godere di una quotazione eccessiva mentre l’industria del Vecchio Continente, per le ragioni più varie, rischia di essere quella che paga la bolletta energetica più alta. Una cornice che rende ancor più difficile far ripartire l’occupazione, impresa non da poco in un Continente che, invecchia, fa fatica a mantenere i livelli di welfare e di previdenza e per questo è costretto ad aumentare le tasse. Senza dimenticare le scadenze elettorali. A febbraio, si sa, tocca all’Italia. Ad ottobre si replica in Germania.
Si capisce, in questo quadro, come la principale preoccupazione della Bce di fronte al successo della politica adottata da luglio in poi con grande coraggio, sia stata quella di smorzare gli entusiasmi. Il difficile, infatti, comincia adesso. Draghi, assieme a Ben Bernanke, ha messo i mercati sotto una tenda ad ossigeno, iniettando ossigeno e medicine (ovvero il denaro) tanto quanto basta per evitare il collasso. Per un po’ il malato non ha reagito, nel timore che qualcuno, sul più bello, potesse chiudere la canna dell’ossigeno per non spender troppo (ogni allusione alla Bundesbank non è casuale). Poi ha prevalso la fiducia. Ma per passare dalla fase della convalescenza alla piena guarigione non bastano le pillole dei prestiti Ltro o di altre magie da banchiere. Occorre semmai, che il paziente riprenda con gradualità a muoversi e ad alimentarsi in maniera normale. In parole povere deve intervenire l’arma della politica economica, con interventi mirati alla crescita e, non meno importante, che le banche, dopo il “regalo” del rinvio dei requisiti di capitale già previsti da Basilea 3, tornino a fornire il credito, senza disperdere i frutti del recupero dei titoli del debito sovrano o delle Borse in qualche operazione clientelare o di profitto a breve. Solo così, con gradualità, il paziente potrà essere dimesso dalla clinica della finanza straordinaria. La banca entrale ha fatto la sua parte. Ora tocca alla politica, alle banche ed alle parti sociali: per questo Draghi non si sente ottimista.