C’è un avviso che arriva da una delle agenzie di rating, da Fitch per l’esattezza, la terza dell’ormai famosa “trimurti”. È un avviso destinato a mettere in subbuglio nelle prossime settimane i mercati finanziari. Se il Congresso americano, avvisa sostanzialmente Fitch, non dovesse raggiungere un’intesa sull’innalzamento del tetto del debito in maniera tempestiva, la prima economia mondiale, cioè quella degli Stati Uniti, uscirebbe dal prestigioso club della cosiddetta “tripla A”. L’equilibrio raggiunto è stato sinora precario, fragile, ed è obbligatorio, necessario, indispensabile, trovare una soluzione, in modo convinto in tempi rapidi. Il che non è facile, perché entrambi gli schieramenti del Congresso sono lacerati al loro interno su questo problema. Se questo compromesso non si trovasse sulla proposta fatta dal presidente Barack Obama, la timida ripresa americana svanirebbe. In più, con un declassamento degli Usa, ci sarebbe un ulteriore contraccolpo sull’economia mondiale.



Luigi Campiglio, docente di Politica economia all’Università Cattolica di Milano, è reduce da un grande convegno economico che si è svolto in California, a San Diego, e quindi ha ascoltato, respirato l’atmosfera che c’è in questo momento negli Stati Uniti. Ma il Professor Campiglio è anche un osservatore attento, un analista che guarda a tutto campo e sa vedere e giudicare i problemi americani e quelli che persistono sull’altra sponda dell’Atlantico, cioè in Europa.



A suo parere si troverà un accordo, un compromesso nel Congresso americano?

Non voglio essere eccessivamente ottimista, ma credo che alla fine un accordo, un compromesso si troverà. Credo che siano tutti consapevoli, per primi gli americani, che se non si trovasse succederebbe il finimondo, con un contraccolpo che ricadrebbe sugli stessi paesi emergenti. Si aprirebbe uno scenario estremamente problematico. Quindi io credo che alla fine prevarrà il buon senso, anche se è vero che l’accordo sinora raggiunto è fragile ed è altrettanto vero che su questo problema c’è una lacerazione trasversale, all’interno dei due stessi schieramenti politici.



La ricetta di Obama, professore, sembra di stampo keynesiano.

È corretto dirlo. Sinora il Presidente degli Stati Uniti ha cercato di stabilizzare i redditi delle famiglie. Ho sentito che si sta tornando a parlare di scelte che solamente qualche anno fa venivano considerate eresie. Il problema è che ci si è resi conto che l’uscita da una lunga depressione lascia sempre delle gravi ferite, dei danni che poi vengono lasciati in eredità, che ci portiamo dietro per anni. Quindi, si ritorna a parlare di politiche keynesiane, perché se non si trova nulla di meglio bisognerà pure inventarsi e tentare qualche altra soluzione. Al momento negli Stati Uniti c’è una ripresa timida, molto timida, che potrebbe tuttavia consolidarsi. Dipenderà molto dall’accordo sul fiscal cliff.

Veniamo invece alle scelte economiche europee. Va avanti la politica del rigore, che però sembra mettere in difficoltà la stessa Germania, alfiere incontrastato di questa politica. Nel quarto trimestre del 2012, il Pil tedesco è scivolato in territorio negativo e la produzione industriale è calata. La stessa stima di crescita per il 2013 è stato rivista: +1,6% a un meno entusiastico +0,4%.

Vedo che la situazione in Europa e in Italia non cambia. Vedo con dispiacere e con preoccupazione che lo stesso welfare è guardato come una sorta di oggetto antico da rottamare. Questa politica del dimagramento continua e io non capisco perché non si debba temere quanto questa dieta possa compromettere la salute del malato, quando a forza di dimagrire si arriverà a essere ammalati gravi.

 

Esiste questo rischio?

 

Stiamo rischiando di pagare in modo molto caro. Perché, come dicevo prima, quando si esce da lunghi anni di depressione, le ferite rimangono e non si rimarginano facilmente. Faccio notare che noi abbiamo ormai concluso il quinto anno di crisi. Per quanto dobbiamo ancora andare avanti? Intanto è inutile girare intorno ai problemi: questi sono anni perduti, anni di generazioni perdute, di giovani che sono senza lavoro, che non hanno mai trovato e non trovano occupazione. Quello che si sta pagando è troppo caro. Io mi chiedo, ad esempio, se, in questo scontro tra creditori e debitori, dove non c’è alcuna elasticità nel risolvere i problemi, qualcuno si rende conto che poi ci sono interessi comuni e che nella crisi sono coinvolte persone in carne e ossa.

 

Intanto si assiste a questo fatto. La Bce da alle banche 200 miliardi di euro al tasso dell’1%. Nell’avversione al rischio che le caratterizza, in questo momento preferiscono incrementare i crediti alla Pubblica amministrazione (più 3,1%) e restringere, di 50 miliardi in un anno, i crediti alle famiglie e alle imprese.

 

I crediti che fa la Bce sono condizionati, pongono cioè delle condizioni. Ecco, in un momento come questo, la Bce potrebbe stabilire la concessione di crediti alle banche con il vincolo che una quota di questi soldi vada alle famiglie e alle imprese. Parlo di una quota, il 20% tanto per dire una cifra. Certo che ci si pone la domanda del perché questo non avvenga.

 

(Gianluigi Da Rold)