Sulla carta, si tratta di un passaggio epocale. Il Parlamento europeo, dopo anni di tentennamenti e discussioni, ha approvato la riforma del rating. Con una larghissima maggioranza – 579 sì, 58 no, 60 astenuti – sono stati introdotti una serie di vincoli per le agenzie che dispongono del potere di fare il bello e il cattivo tempo rispetto non solo alle emissioni di debito pubblico, ma anche ai governi dei Paesi emittenti. Nel dettaglio, i loro giudizi potranno essere espressi solamente tre volte l’anno, a mercati chiusi, e non potranno contenere valutazioni politiche. Sarà obbligatorio, inoltre, esplicitare l’eventuale presenza di soci con diritti di voto pari ad almeno il 10% che, contestualmente, abbiano interessi nei soggetti valutati. Infine, sarà possibile citare in giudizio le agenzie che violino le norme Ue. Da anni si parla anche dell’istituzione di un’agenzia europea. Non se ne farà nulla. La Commissione Ue, infatti, dovrà estendere un rapporto sull’ipotesi entro, addirittura, il 2016. Va da sé che si andrà alle Calende greche. Abbiamo parlato di tutto ciò con Emilio Colombo, professore di Economia internazionale presso l’Università Bicocca di Milano.

Come valuta la riforma europea?

Tanto per cominciare, non penso che, dal punto di vista legale, sortirà alcun effetto. Non mi risulta che ci sia modo per far valere una legge europea nei confronti di soggetti che, prevalentemente, hanno sede a New York.

Quindi, non sarà neanche possibile citarli in giudizio?

Mi pare evidente. Tanto più che va considerato che se uno si macchia di negligenza, ovviamente deve essere chiamato a rispondere del suo operato. Non c’è bisogno di una legge apposita. Devono, tuttavia, sussistere le condizioni perché questo sia possibile.

Posto che sia possibile, cosa ne pensa dell’obbligo di emettere giudizi a mercati chiusi?

Mi sembra, francamente, il minimo. Per molte altre situazioni è un vincolo già rispettato.

E delle limitazioni ai conflitti d’interessi?

Anche questa è una norma di buon senso. Quel che è veramente curioso, invece, mi pare il divieto di esprimere giudizi di natura politica.

Perché?

Il rating e lo spread (complementari l’uno dell’altro), rappresentano due modi diversi per dare un giudizio su un Paese. Il primo è fornito da un soggetto privato, il secondo dal mercato. Ebbene, perché lo spread dovrebbe poter esprimere il giudizio sulla capacità di solvenza di un Paese in seguito alle esternazioni della politica e il rating non dovrebbe poterlo fare? E’ evidente che il rischio sulla solidità di un Paese riflette sia il rischio economico che quello politico. Se c’è incertezza sul piano politico, aumenta anche quella sul piano economico. Un’agenzia di rating non può tenerne conto. E’ naturale, quindi, che uno Stato instabile abbia un rating più basso.

Cosa ne pensa, invece, della limitazione al numero dei giudizi?

Beh, i giudizi si dovrebbero emettere all’atto delle emissioni. E, oltretutto, se da qui ai prossimi due o tre mesi dovesse accadere un fatto politico o economico determinante, perché l’agenzia non dovrebbe poter adeguare il proprio giudizio al corso degli eventi? Inoltre, non dobbiamo dimenticare che il valore e lo spread di un un certo titolo di debito possono subire variazioni di minuto in minuto. Posto, quindi, che il rating non dovrebbe riflettere le medesime variazioni di breve periodo, ma i fondamentali, è anche sbagliato, come fanno in molti, stupirsi del fatto che il giudizio delle agenzie non cambi parallelamente a quello degli spread.

Non crede che ogni problema si sarebbe potuto risolvere alla radice, se le istituzioni avessero avuto la forza e la volontà di creare un’agenzia europea?

Non vedo come un soggetto che ha il compito di valutare un’istituzione pubblica possa, a sua volta, essere pubblica. L’unico motivo consisterebbe nel darci da soli voti migliori. Mi pare, per lo più, una questione da campagna elettorale.

 

(Paolo Nessi)