Sui mercati finanziari c’è bonaccia. Il nuovo anno si è aperto con importanti segnali di speranza: le borse positive, gli interessi che scendono, lo spread che si riduce. I tassi sui junk bonds, indicatori per il futuro, sono tornati sotto il 6%, scrive il Financial Times, dunque c’è voglia di investire. Ma le incertezze sull’andamento dell’economia reale tengono in ansia le borse.
Wall Street finora ha scommesso decisamente sulla ripresa. Anche in Asia la frenata del 2012 prepara un’accelerazione fin da quest’anno. Restano invece ancora brutti i dati sulla congiuntura europea, compresi quelli della Germania (peggiori del previsto). Altro che locomotiva. Sta diventando una zavorra. E persino il primo ministro spagnolo ha alzato il ditino contro la testarda austerità di Angela Merkel. Adesso, aspettiamo che Mario Draghi le chieda ripettosamente una svolta, aggiungendo la sua pacata e autorevole voce a quella di Obama e del Fondo monetario internazionale.
La finanza anticipa, nel bene e nel male, l’economia reale, di almeno sei mesi; dunque, bisogna aspettare, ha ricordato Draghi. Ma non si può stare con le mani in mano. Il tempo è tutto, guai a perdere giorni preziosi. È possibile rilanciare l’economia prima che sia troppo tardi? E senza aspettare un voto che non risolverà nulla? È possibile, anche se lo stimolo non passa per i bilanci pubblici, bensì per le banche. E per un ruolo attivo della banca centrale, intendiamo non solo la Bce, ma anche la Banca d’Italia.
La politica fiscale è bloccata nell’area euro almeno fino alle elezioni tedesche di settembre. Quanto all’Italia, bisognerà aspettare il pareggio del bilancio. Dunque il 2014. Se tutto va bene, perché finora le previsioni del governo Monti si sono rivelate sballate. È colpa del fatto che il moltiplicatore keynesiano è cambiato, dice Olivier Blanchard, capo economista del Fondo monetario internazionale. Se fosse rimasto allo 0,5 come nel passato, il salva-Italia avrebbe ridotto il Pil solo dello 0,7% anziché del 2,4%. Ma tant’è. Nonostante le promesse elettorali, la magiatoia pubblica è inutilizzabile.
Allora, il ciclo economico deve ripartire dal credito. È esattamente quel che sta accadendo negli Stati Uniti, dove i prestiti sono saliti a tassi del 12% l’anno scorso, tornando allo tesso ritmo del 2008, prima del crac di Lehman Brothers. Anche oltre Atlantico, del resto, la politica di bilancio è limitata: il tetto al debito pubblico (16,4 triliardi di dollari) verrà raggiunto il mese prossimo e il massimo che Obama possa fare è convincere il Congresso a prendere un altro anno di tempo.
Il circuito del credito è stato rimesso in moto negli Usa soprattutto grazie alla banca centrale: la Federal Reserve ha azzerato i tassi di interesse (e Ben Bernanke ha detto che non li aumenterà almeno fino al 2015), ha iniettato moneta liquida (con il Quantitative easing), ha acquistato titoli delle imprese e bond immobiliari (simili alle nostre cartelle fondiarie) evitando, nel primo caso, uno spiazzamento da parte dei buoni del tesoro e, nel secondo caso, sbloccando il mercato edilizio.
Di fronte a questo nuovo scenario, le banche commerciali sono tornate a prestare denaro, mentre quelle d’investimento hanno rimpinguato i profitti con il trading dei titoli pubblici e privati. Adesso sta all’industria trasformare il capitale in produzione, beni di investimento, merci e posti di lavoro. Smagrita e resa più efficiente, essa sta facendo quel che può, come nel caso dell’auto. Anche se il mercato non è tornato ancora a 15 milioni di vetture, le imprese fanno utili e assumono.
Che cosa ci vuole perché anche in Europa (e in Italia in modo particolare) riparta il meccanismo virtuoso del credito? Occorrono due condizioni: ridurre il peso dei titoli di stato nelle banche e allegerire i loro bilanci dai prestiti in sofferenza. La prima strada è stata seguita dalle banche tedesche, francesi, olandesi: si sono liberate di titoli pubblici in modo massiccio tra il 2011 e il 2012, ma così facendo hanno provocato la crisi dello spread che abbiamo vissuto fino a poche settimane fa; noi, gli spagnoli, i portoghesi (i greci erano ormai già fuori mercato).
Nel caso dell’Italia (e in parte anche della Spagna) ciò ha costretto le banche nazionali ad acquistare Btp e Bonos, riempendosi a loro volta di bonds e bloccando anche in questo modo i loro bilanci. I mille miliardi di euro prestati dalla Bce all’1% e a tempo indeterminato hanno impedito una nuova crisi di liquidità. Le banche italiane hanno preso 250 miliardi; ben 140 sono serviti a comprare titoli di stato. Quanto a quelle spagnole, la liquidità della Bce non è bastata e hanno dovuto chiedere aiuto all’Unione europea.
Ora che i tassi tornano in basso, i prezzi dei titoli risalgono e le banche potrebbero mettere in conto addirittura dei capital gain. Solo potenziali, però, perché se cominciano a vendere, il circolo vizioso s’innesca di nuovo. Dunque, bisogna inventarsi qualcosa, l’immaginazione non è di casa solo a Washington. Lo stesso dicasi per i crediti inesigibili, o quelli dubbi. Ad aggravare la situazione c’è il macigno dei debiti che la Pubblica amministrazione deve alle imprese, stimati in 90 miliardi. Corrado Passera aveva avuto una bella idea: pagarli con titoli di stato. Ma non è passata per la paura di peggiorare i dati sulla finanza pubblica. Ora di proposte ne circolano parecchie.
La patata è bollente e gigantesca: si parla di sofferenze per 70 miliardi di euro. Se si aggiungono i 140 miliardi di titoli acquistati nell’ultimo anno, si forma un tappo davvero consistente che spaventa le banche e le induce a lesinare il credito. Certo, le banche non possono essere esentate da ogni rischio, debbono rafforzare il capitale, ridurre la leva finanziaria e pagare quando sbagliano. Le imprese, dal canto loro, debbono fare più ricorso al mercato: se la crisi riduce il bancocentrismo, malattia senile del capitalismo italiano, è un bene. Tuttavia, sono tutte trasformazioni quanto meno di medio periodo. Adesso bisogna uscire il prima possibile dalla crisi. E farlo senza aspettare il traino delle esportazioni che resta fondamentale, ma parziale e comunque dipendente dal ciclo stagnante dell’area euro.
Invece di lasciare tutto al fervido lavorio di menti ingegnose, che giustamente non credono alle promesse elettorali, la Banca d’Italia dovrebbe prendere in mano la situazione. Certo, ancora una volta la banca centrale è costretta a fare supplenza riempiendo il vuoto lasciato dal Governo. Ma solo lei ha il quadro vero, possiede tutti gli strumenti per capire e per intervenire. Potrebbe, dunque, elaborare un progetto credibile e compatibile (anche con le regole della Bce), attorno al quale esercitare la moral suasion, inanzitutto sul sistema bancario che a lei fa riferimento e poi sulle forze politiche.
Fin da ora, senza attendere il risultato delle urne. Perché chiunque vinca, come prima cosa dovrà sciogliere il primo nodo che blocca la crescita.