«L’accresciuta incertezza politica in Italia è stata all’origine, negli ultimi due mesi dell’anno, di alcuni flussi di capitali, con l’obiettivo di ricercare investimenti più sicuri (flight-to-safety), verso i titoli emessi dai paesi con rating “AAA”» . Sorprende quest’affermazione del bollettino mensile della Bce, perché non trova riscontro, a prima vista, con l’andamento dei listini, sia azionari che obbligazionari. Basti, tanto per citare un esempio, dare uno sguardo alla mappa degli acquirenti dell’emissione di Btp a 15 anni di martedì scorso, sottoscritta per 6 miliardi di euro: gli italiani sono stati il 40%, a cui si aggiunge un 29% di residenti in Gran Bretagna, il 9% della Germania, l’8% della Francia, il 5% dei Paesi scandinavi/Benelux. Intanto, lo spread tra Btp e Bund è sceso a quota 255, il rendimento è fissato al 4,16%, a un passo dal record (4,12%) degli ultimi 26 mesi.



Per quanto riguarda, invece, i titoli a tripla AAA, il rendimento del Bund tedesco, negativo a dicembre, è salito a 0,175%, al massimo dal 4 aprile scorso. L’unico titolo con un rendimento negativo resta il bond della Svizzera, ancora una volta il forziere d’Europa. Ma anche in questo caso, da fine anno a oggi si registra un sensibile cambiamento: -0,167% oggi contro -0,60% in agosto. Insomma, una volta tanto i numeri non giustificano il monito di Francoforte.



Certo, i rilievi del bollettino si riferiscono al momento più “caldo”, quando l’annuncio della discesa in campo di Silvio Berlusconi ha avuto immediate ripercussioni sul mercato azionario e ha riportato lo spread sopra quota 300. Ma l’effetto è stato di breve durata. Tempo una settimana e i mercati finanziari hanno assorbito la novità con disinvoltura. Né la campagna elettorale sembra aver modificato gli umori dei grandi operatori. «Quando incontro gli investitori non sento molte domande sulle elezioni in Italia» dice il chief Economist di Unicredit, Erik Nielsen.

Sono altri i fattori di cui i grandi operatori tengono conto: «La liquidità è uno tsunami che arriva, e quando il mercato torna gli investitori non possono rimanere ai margini». Ovvero, i signori del denaro non hanno tempo per seguire le comparsate dei leader sugli schermi tv. Per ora sono altri i “driver” che condizionano il mercato. L’enorme quantità di liquidità inutilizzata presente sul mercato, ove galleggiano più di 2 mila miliardi di dollari erogati dalla Fed e una cifra superiore in arrivo dalla Bce, il cui patrimonio sfiora ormai i 3 mila miliardi. Ma anche il venir meno dei timori di disgregazione dell’euro, che si è combinato con le manovre giapponesi per indebolire lo yen e analoghe pressioni sul dollaro.



Certo, a fine ottobre i Btp in mano a investitori esteri erano pari a 671 miliardi, in netto calo (142 miliardi) dai massimi del giugno 2011, prima della fuga dei capitali che impropriamente, con una voluta confusione sulle date, è stata confusa con la “congiura” contro il Governo. Ma in questi mesi, secondo gli addetti ai lavori, c’è stato un sensibile recupero.

Perché allora quelle tre righe del Bollettino che già fanno discutere? I dietrologi s’immaginano che la nota sia stata inserita all’ultimo momento come indiretta risposta alla benedizione da parte di Berlusconi per la candidatura di Mario Draghi al Quirinale. Guai a coinvolgere in qualsiasi modo la Banca centrale europea nei giochi della politica di un Paese che di suo resta debole e che, rispetto ai mercati, può solo giocare la carta dell’autorevolezza del presidente romano della Bce. Non scherzate con il fuoco, perché l’attuale luna di miele con i mercati può finire in qualsiasi momento.

Il monito, poi, si combina benissimo con il messaggio in arrivo dalla Banca Mondiale. Così come l’istituto di Washington ha voluto allertare i mercati, troppo sereni e fiduciosi, contro il rischio di un conflitto fiscale americano che potrebbe provocare una recessione globale, così la Bce, senza voler entrare nel merito della contesa politica di casa nostra, ha voluto avvertire i mercati, “drogati” dall’abbondante liquidità, che i trambusti italiani possono rimettere in discussione i progressi già conseguiti.

Solo pochi mesi fa i Big della City e di New York registravano febbrilmente ogni dichiarazione di partiti e partitini greci, scommettendo o paventando che l’azione dei neo-trotzkisti o dei neo-nazisti del Pireo potessero far crollare l’euro. Possibile che quegli stessi operatori accolgano con calma olimpica le promesse fiscali più strabilianti in un Paese come l’Italia, stressato dall’anno più duro del dopoguerra?

Non è affatto certo che Mario Draghi ami più di tanto l’austerità che frau Merkel imporrà all’Europa del Sud almeno fino alle elezioni del prossimo ottobre. Non è affatto detto che il Machiavelli romano non stia già tessendo da par suo una tela di accordi a tutto campo che prevedano, accanto al proseguimento della politica del rigore, l’afflusso di capitali internazionali nell’ambito della Bei o dell’Ems: dopo lo tsunami della liquidità, a breve potrebbero arrivare, a rimorchio della stabilità monetaria, investimenti a lungo termine, in grado di portare occupazione. Ma per far questo occorre che, al di là degli slogan elettorali, le forze politiche italiane (così come quelle di altri paesi) non nutrano l’illusione che si possa imporre alla Merkel un cambio di rotta a 180 gradi a sei mesi dalle elezioni. Che si possa, come sperano a sinistra, imporre, grazie all’alleanza con Parigi, una diversa politica a Berlino.

Così si trascura il fatto che, come ha sottolineato Lucrezia Reichlin, la misura più rilevante dell’esecutivo socialista è stato l’aumento dell’Iva a fronte di sgravi fiscali per favorire la competitività sistema. Una mossa molto tedesca, molto “riformista” (non a caso la paternità è del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder), ma nient’affatto di sinistra.

Lo stesso vale per le ricette dell’asse Polo-Lega: un terremoto fiscale, basato sui presunti tagli di spesa e l’abolizione delle tasse più odiate, è l’ultima cosa che Draghi può volere per il suo/nostro Paese. Il fatto che Berlusconi pensi a lui, come inquilino del Quirinale è un segno evidente di “quell’incertezza politica” che può far ripartire i capitali verso Nord.

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