Il redditometro continua a creare polemiche. Non sono bastate le rassicurazioni dell’Agenzia delle entrate a impedire che le associazioni dei consumatori si mettessero sul piede di guerra. L’Adusbef, in particolare, ha incaricato i propri legali di impugnare il decreto sul redditometro in tutte le sedi opportune: Commissioni tributarie e Tar del Lazio, tanto per cominciare. Secondo l’associazione, il nuovo strumento sarebbe «affetto da rilevanti vizi di illegittimità, anche di ordine costituzionale». Da quest’ultimo punto di vista, l’obiezione è sull’onere della prova a carico dei contribuenti. Abbiamo fatto il punto sulla situazione con Paolo Costanzo, commercialista titolare dell’omonimo studio di consulenza.
Crede che le obiezioni di natura costituzionale siano fondate?
Purtroppo, siamo abituati a tutto da parte dell’amministrazione finanziaria. E, già in altri casi, il cittadino si è trovato costretto a dover dimostrare di non essere disonesto. Lo abbiamo visto nella precedente versione del redditometro, così come nel caso degli studi di settore. E’ sempre spettato al cittadino provare lo sconfinamento. Per cui, non so quanto un’azione che porti a dimostrare l’illegittimità costituzionale possa dimostrarsi efficace. Sta di fatto che la situazione economica generale impone interventi volti a eliminare l’ingiustizia sociale rappresentata dall’evasione.
L’Agenzia delle entrate ha promesso che non si tratterà di una caccia alle streghe, ma procederà con cautela.
Lo avevano promesso anche nel caso degli studi di settore. Eppure, molti cittadini, i cui redditi e stili di vita si discostavano da quelli che erano presunti dall’Agenzia dell’entrate in base ai propri parametri, hanno subito vessazioni d’ogni sorta, pur essendo in regola.
In tal caso accadrà qualcosa del genere?
Temo di sì.
Perché?
Anzitutto, a causa della qualità dei funzionari dell’amministrazione finanziaria. Per carità, ci sono centinaia di persone estremamente valide, preparate, dotate di grande spirito di servizio. Tuttavia, la remunerazione che percepiscono e l’egualitarismo che pervade il nostro Paese, specie nelle amministrazioni pubbliche, fanno sì che le risorse migliori, spesso e volentieri, una volta acquisita una certa professionalità, preferiscano avviare un’attività privata in luogo della permanenza presso la struttura pubblica. Dove il merito non sarebbe premiato, a causa, soprattutto, dell’azione dei sindacati volta a impedire l’instaurarsi di logiche meritocratiche. Ma ci sono altre due ragioni.
Quali?
Spesso gli uffici periferici, ma anche le direzioni centrali, definiscono dei budget di raccolta e riscossione. Capita non di rado che si prescinda dall’obiettivo della giustizia tributaria e che l’amministrazione invii richieste di accertamento, pur sapendo benissimo che non sono legittime. Tutto ciò si traduce in un 50% di contenziosi che, normalmente, si risolvono a sfavore dell’amministrazione finanziaria. Infine, non dobbiamo dimenticare che il cittadino onesto è psicologicamente portato a non conservare il materiale per potersi, eventualmente, difendere. E, in caso di accertamento, non è preparato circa le risposte giuste da dare. Normalmente, come se non bastasse, chi evade lo fa in nero, senza lasciare traccia.
Quale sarebbe il metodo più corretto per accertare le irregolarità senza vessare i cittadini?
Un sistema fiscale semplice si presterebbe a meno interpretazioni possibili. Il cittadino si troverebbe nelle condizioni di non sbagliare, mentre l’amministrazione potrebbe più facilmente contestare i comportamenti illeciti. Anche sul fronte della grande evasione. L’elusione, infatti, nasce spesso dalla possibilità di individuare nei meandri delle norme contorte i metodi per farla franca. Chi evade, inoltre, trova spesso, all’estero, discipline fiscale più favorevoli. Sarebbe opportuno, da questo punto di vista, procedere alla tanto auspicata integrazione fiscale europea.
(Paolo Nessi)