La ricostruzione storico-economica degli eventi non richiede particolari doti investigative: semplificando in maniera estrema, il Monte dei Paschi di Siena comprò, nel 2007, l’Antonveneta a 9,3 miliardi di euro (a cui si aggiunsero altri oneri per un miliardo) dal Banco Santander. Questi l’aveva acquista solamente due mesi prima per 6,3 miliardi. Se l’immotivato prezzo aggiuntivo fu il frutto di una tangente o di considerazioni strategiche scriteriate, lo stabilirà la magistratura. Sta di fatto che l’operazione determinò un buco nella casse dell’istituto che cercò di colmare, a livello contabile, con un altrettanto fallimentare operazione in derivati. Quel che ancora non è noto, è come è stato possibile che tutto ciò sia potuto avvenire. Lo abbiamo chiesto a Franco Debenedetti.
Perché siamo giunti a un tale disastro?
Adesso tutti se la prendono con i rapporti tra banche e politica, non senza qualche ragione, si deve riconoscere. Ma si dovrebbe ricordare da che cosa nasce questo rapporto e perché la separazione tra banche e politica, venne realizzata formalmente negli anni ’90, ma in modo sostanzialmente imperfetto. La domanda giusta sarebbe: perché questo è avvenuto nonostante che la separazione fosse l’obbiettivo dichiarato? Amato proprio la separazione dalla politica voleva, quando ha creato le Fondazioni mettendo così le premesse per la privatizzazione delle banche. Era solo il primo passo. Fu quello giusto? Amato stesso ne dubitava, quando disse che temeva di avere creato Frankenstein. Il secondo passo fu il Testo Unico della Finanza (TUF), la cosiddetta legge Draghi. Bisogna ricordare che secondo l’interpretazione prevalente, l’obbligo a vendere equivale a un esproprio. Quindi non si può obbligare le Fondazioni a vendere. La legge Draghi dà alle Fondazioni costi a non vendere e vantaggi a vendere: vantaggi economici e conferimento dello status di soggetti di diritto privato.
Cosa sarebbe stato preferibile?
Le Fondazioni come soggetti privati hanno libertà statutaria entro i limiti generali della legge, ma gli statuti devono essere approvati dall’autorità tutoria, il ministero del Tesoro. Solo con l’approvazione dello statuto le fondazioni acquistano la libertà di soggetti privati. Il varo di quella legge fu un processo molto lungo, io all’epoca ero in Senato e non me ne sono perso neanche uno dei numerosi passaggi in commissione e in aula. Mi ero fatto mettere in commissione finanza apposta. Le mie proposte avevano tutte un obbiettivo: vietare alle Fondazioni il controllo, diretto o indiretto, da sole o in associazione tra loro, di qualsiasi attività economica a fine di lucro, bancaria o non bancaria. Cioè le Fondazioni proprietarie di un patrimonio, che devono gestire con il solo obbiettivo dell’equilibrio tra rischi e crescita, ma senza nessun obbiettivo di controllo. E dedite invece a erogare con saggezza il reddito del loro patrimonio a beneficio delle comunità da cui erano nate. Intendendosi per controllo il potere di nominare gli amministratori. E’ giusto che i vertici delle Fondazioni siano nominate dalla politica. E proprio per questo è sbagliato che le Fondazioni nominino i vertici delle banche.
Come andò a finire?
Che questa impostazione non venne accettata. Tuti i miei emendamenti vennero respinti. Non c’è da stupirsi: le Fondazioni sono centri di potere e quindi fonti di consenso politico: tutti i partiti hanno interesse a tenerselo buono. Ministro era Ciampi, ma chi si occupava di questo tema era Roberto Pinza, componente cattolica dell’Ulivo. Ma poteva contare su consensi trasversali che andavano da Forza Italia al Pds. Ciampi mi diceva di essere d’accordo con me, ma non ci andava molto a capire che c’erano equilibri politici che non si potevano toccare. D’altra parte avevo già sperimentato le resistenze al progetto di legge che avevamo studiato con Francesco Giavazzi, Alessandro De Nicola, Alessandro Penati per consentire alle Fondazioni di vendere su mercato le partecipazioni nelle “loro” banche.
Cosa prevedeva?
Era un ingegnoso sistema di vendita che avrebbe massimizzato il ricavato delle vendite per le Fondazioni, e che quindi andava nel loro interesse. Interesse economico evidentemente: tutto a scapito dell’interesse “politico” tra virgolette, cioè indiretto, del potere che deriva dal controllo di una banca. Quella proposta incontrò una resistenza pressappoco “militare”, da una parte perché alla politica interessava avere quel canale di controllo, dall’altra perché non si aveva fiducia nella capacità allocativa del mercato. E se poi le banche le avesse comperate uno straniero? O la mafia? Oppure se nessuno avesse voluto comperarle? Ne abbiamo sentite di tutti i colori. Nessuno ha capito che in questo modo si faceva il vero interesse delle Fondazioni, del capitale che non è “loro” ma delle comunità dove le banche sono nate e cresciute. Il caso Mps è eclatante, ma sono molte le Fondazioni che hanno mantenuto quote importanti del loro patrimonio immobilizzato nelle “loro” banche e che ora si leccano le ferite.
Perché le sue proposte trovarono una simile opposizione?
Perché le Fondazioni non vogliono perdere il potere. Potere economico, e potere politico che ne deriva. Il guaio, se così si può dire, è che questa linea era sostenuta da persone straordinarie, non solo ne senso ovvio della rettitudine personale, ma anche di visione politica. Una per tutte l’avvocato Guzzetti, persona di grande statura intellettuale e morale. Ma le leggi vanno fatto proprio per non dover contare su persone eccezionali, ma su persone normali, e per difendersi da quelle che sono… oltre la linea. E dico questo senza alcun riferimento specifico ai fatti da cui lei ha iniziato questa chiacchierata.
In che modo la politica ha portato al disastro di Mps?
Degli illeciti si occupa la magistratura. Anch’io credo che è stata la politica a causare il disastro, ma in un senso molto più indiretto da quello che è sotteso dalla sua domanda. Nel senso che credo avesse in mente D’Alema quando di ritorno da un viaggio negli Usa, raccontò che, avendo visto a Wall Street spostare milioni di dollari da un mercato all’altro premendo il tasto di un computer, il sistema di governance di Mps gli sembrava qualcosa che apparteneva piuttosto alle tradizioni medievali. Quello che ha rovinato Mps non è tanto quello che la politica può aver fatto, ma quello che la politica ha impedito di fare, imponendo che la Fondazione, cioè in ultima analisi il Comune, mantenesse il controllo assoluto della banca. Più che una banca controllata dalla politica, una banca controllata da un municipio. E quando vuole giocare da grande, si rovina.
Cosa intende?
Che è la stessa storia delle aziende municipalizzate di elettricità, acqua, servizi vari. Anche loro centri di potere e come tale interessano alla politica.
E’ possibile che Draghi, ai tempi in cui era governatore della Banca d’Italia, potesse non conoscere la situazione del Monte dei Paschi prima e dopo l’acquisto dell’Antonveneta al prezzo di 3 miliardi superiore a quel lo pagato solo 2 mesi prima da Santander?
Bisogna intendersi su che cosa è la vigilanza. Questa controlla i conti, i coefficienti patrimoniali, la misurazione dei rischi, la solidità di una banca. In proposito ricordo che allo stress test dell’Eba, l’autorità bancaria europea, Mps fu l‘unica banca italiana “bocciata”. L’autorità di vigilanza solo induttivamente può avere degli indizi che di ciò che per definizione non è nei libri, perché è nascosto con cura: scoprirlo è compito della magistratura che ha anche i poteri per farlo. La Banca d’Italia non è la polizia giudiziaria, il suo scopo primario è di assicurare la stabilità del sistema bancario. Quindi rimediare in tempo alle situazioni che possono presentare pericoli, evitando di lanciare facili allarmi che provocherebbero proprio il danno che è compito della Banca evitare.
Eppure, ha dato l’ok all’operazione.
E ci mancherebbe. Un’autorità di vigilanza non si sostituisce al management. Controlla che la banca abbia i mezzi per comperare e capacità per gestire, ma non deve sostituirsi alla decisione manageriale approvata dai soci. Ricordo che Fazio era stato violentemente criticato proprio perché accusato di favorire od ostacolare operazioni di fusioni per realizzare il suo master plan. Se Banca d’Italia si sostituisse al management, diventerebbe responsabile dei risultati della banca. Sarebbe una nazionalizzazione. Si ritornerebbe alla casella di partenza da cui è iniziata questa conversazione.
Secondo lei, a questo punto, come sarà possibile salvare il salvabile?
Qualcuno ha proposto di nazionalizzare la banca, per poi venderla al mercato. Giusto, cosi si farebbe in America o in Inghilterra. Ma, da noi e detto tra di noi, lei si fiderebbe?
(Paolo Nessi)