La bolla obbligazionaria potrebbe esplodere prima del tempo, cioè già entro il 2013. La Banca centrale russa sta continuando a comprare oro fisico per diversificare le sue riserve estere, stando ben a distanza dalle valute, euro in testa, viste come a rischio: si è registrato un +8,5% nel corso del 2012 e anche Turchia e Kazakistan stanno ammassando lingotti nei loro caveau. Parlando a Davos, George Soros, uno dei più grandi acquirenti d’oro al mondo nell’ultimo periodo, ha detto chiaramente che la guerra valutaria che sta per scatenarsi potrebbe portare a un repentino rialzo dei tassi d’interesse. Bank of America, invece, si spinge oltre nel suo ultimo report, parlando chiaramente del rischio di “bond crash” come nel 1994, quando la bancarotta obbligazionaria di Orange County, in California, innescò la cosiddetta “Tequila crisis” in Messico.
Insomma, il rischio è quello che le banche centrali si ritrovino di colpo a dover avere a che fare con un’inflazione fuori controllo, minacciando un rialzo dei tassi che porterebbe all’aumento immediato dei rendimenti obbligazionari. È quanto successe appunto nel 1994, quando l’allora capo della Fed, Alan Greenspan, si ritrovò a dover gestire un aumento dei rendimenti sul bond trentennale statunitense di 240 punti base in nove mesi, scatenando un’inversione drammatica nelle aree più soggette alla leva del mercato del reddito fisso. Per Bank of America, «il periodo di massima liquidità è vicino alla fine, visto che il Giappone può sì influenzare i mercati con la sua politica espansiva, ma il trend generale appare quello di transizione dalla deflazione a crescita e tassi normali».
All’epoca della crisi, la bancarotta di Orange County, pesantemente esposta sul mercato obbligazionario, innescò un effetto a cascata che vide finire nell’occhio del ciclone i cosiddetti “tesobonos” messicani, legati direttamente al dollaro e quindi protagonisti di un aumento esponenziale del costo di roll over. A far paura, in questo caso, è la quantità enorme di liquidità riversatasi dai mercati di capitali nell’obbligazionario, capace di creare una correzione netta delle dinamiche di carry trade: e per Bank of America stiamo già vedendo i prodromi di una “grande rotazione” dai bond all’azionario, con un pattern identico a quello del 1994 e con le banche in prima fila a guidare la chiamata verso un nuovo “mercato del toro”. Nei soli ultimi 13 giorni di contrattazioni, gli equity funds Usa hanno drenato 35 miliardi di dollari dall’obbligazionario verso l’azionario, ma la mole di denaro che potrebbe muoversi nei prossimi mesi è superiore al triliardo di dollari.
La stessa Banca per i regolamenti internazionali si è sentita in dovere di emettere un’allerta riguardo l’utilizzo di massa di bonds spazzatura ad alto rendimento e obbligazioni legate a debito su mutui, entrambi contrattati ai minimi di sempre: insomma, la leva del rischio è decisamente in fase attiva, il mondo ha voglia di grossi profitti in breve tempo. Quali rischi comporti una scelta simile avremmo dovuto impararlo già nel 2007-2008.
Lo stesso Mario Draghi ha parlato chiaro e tondo di un trend pericoloso che sta diventando diffusissimo, mentre a Wall Street si parla chiaramente di scelta dell’obbligazionario come riflesso condizionato per la paura del market crash occorso nel 2008, trasformando i bonds in investimenti sicuri per preservare ricchezza, al netto di un pericolo inflattivo praticamente inesistente per almeno quattro anni. I fondi pensione, soprattutto, hanno fatto indigestione di bonds, con i rischi che questo comincia a comportare per decine di milioni di lavoratori e pensionati. Insomma, qualcuno più cauto di altri comincia magari non a uscire tout-court dal mercato ma a scegliere scadenze più brevi, visto che la discesa dei tassi ha toccato il punto massimo e ora può soltanto risalire, agendo su prezzi e rendimenti.
Resta però il solito, grande dubbio: sta davvero ripartendo la crescita, ancorché flebile, oppure l’ultima iniezione di liquidità delle banche centrali sta sì spingendo i mercati al rialzo, ma non creando trazione reale per un nuovo ciclo economico? Come la pensi io, è cosa nota. Resta sempre la grande divaricazione, ovvero il fatto che difficilmente si può parlare di crescita quando l’economia reale resta sempre qualche passo indietro rispetto ai mercati finanziari: oggi come oggi, quei passi sono chilometri. E se davvero la bolla obbligazionaria dovesse esplodere, addio aspettative per tutto il 2013 e almeno metà del 2014: ecco il perché di quel minaccioso “o la va o la spacca” di Christine Lagarde a Davos.
Se tutti gli indicatori del rischio parlano di picchi sul mercato, pari ai massimi del 2007, significa che una qualsivoglia correzione andrà a toccare una massa tale di carta sparsa per il mondo da creare i presupposti di uno shock sistemico in puro stile Lehman Brothers. A quel punto, sarà davvero dura, se non impossibile, governare un regime simile in maniera ordinata. E se scatta la grande fuga o, peggio, la sell-off, non sarà solo il mondo corporate o dei mutui immobiliari a pagare il conto – ovvero le istituzioni finanziarie pure – ma anche i debiti sovrani, soprattutto quelli periferici europei.
La Spagna sarà in prima linea, poi, visto che alle sofferenze bancarie, già oggi sopra l’11% del totale, da ieri va a sommarsi il risultato pressoché zero alla voce nuovi mutui immobiliari concessi (si veda in proposito il grafico più in basso): quindi, la tempesta perfetta, troppe case in giro, zero mutui per comprarle, prezzi che crolleranno ancora e banche che dovranno prima o poi fare i conti con quella diminuzione folle di valore e contemporaneamente con il numero di crediti ormai inesigibili, persi per sempre.
Dobbiamo prepararci a fare ancora i conti con lo spread, come nel 2011? I rischi ci sono tutti e quando si arriverà al redde rationem, non sarà guerra di retroguardia. Sarà mors tua, vita mea.