Il lessico dell’economia è diventato come tutti sanno il linguaggio universale più pervasivo e allo stesso tempo il meno comprensibile. Noi parliamo quotidianamente di stabilità, emergenza, equilibrio, innovazione tecnologica, pareggio di bilancio, debito pubblico, disavanzo, esodati, esuberi, precari, senza riuscire quasi mai a comprendere a quali aspetti della vita materiale questo così ricco vocabolario si riferisca.
Nessuno è in grado di capire cosa ad esempio significhi e implichi l’espressione “patto di stabilità” o “legge di stabilità” con la quale i responsabili del governo nazionale e mondiale individuano l’obiettivo fondamentale delle politiche economiche, misurate astrattamente sul rapporto tra Pil e debito pubblico nazionale senza che si provi neppure a spiegare in modo almeno più analitico cosa significhino nella vita reale queste espressioni, e come di fatto diventino strumenti di legittimazione di azioni e di interventi in gran parte arbitrari e convenzionali. Proviamo per esempio a dare un contenuto all’espressione “patto di stabilità” che, specialmente nei governi tecnici, è diventata una vera e propria formula magica.
La stabilità di cui si parla nel linguaggio economico divenuto abituale riguarda esclusivamente il campo del rapporto tra la contabilità nazionale e il sistema internazionale dei mercati finanziari. Il mercato finanziario è diventato il luogo di una nuova forma di capitalismo dominante: il capitalismo finanziario. La novità di questa fase della storia umana infatti è che la finanza si è quasi totalmente resa indipendente rispetto all’economia produttiva di merci e servizi e si muove secondo una logica puramente speculativa e caotica.
Basta qualche richiamo per rendersi conto dell’attuale e strutturale instabilità caotica del sistema finanziario internazionale. L’autonomizzazione del capitalismo finanziario dall’economia produttiva ha reso possibile la creazione di profitti senza la mediazione dell’economia reale dando vita ad una sorta di circolarità perversa in cui il criterio di funzionamento è esclusivamente la speculazione. Questo ha fatto sì negli ultimi anni, sicuramente a partire dal 2008, che la massa finanziaria crescesse in modo esponenziale rispetto all’effettiva produzione di beni e servizi, e la cosiddetta bolla speculativa ha raggiunto cifre esasperate misurate in quadrilioni di dollari, superando di otto/dieci volte la produzione di ricchezza effettiva di ciascuno Stato o di ciascuna zona. Tremonti, in un libro uscito l’anno scorso, ha sottolineato che la massa dei “derivati” vale 11,2 volte il prodotto lordo dell’intero pianeta. Questa massa finanziaria si è sviluppata in uno spazio autonomo che viene paragonato a un casinò di Las Vegas o a una bisca clandestina dove ciascun attore scommette sul puro incremento della somma messa in gioco.
Si è determinata così una divaricazione crescente di potere tra la massa dei crediti incorporati nei prodotti finanziari, creati artificialmente attraverso una sorta di moltiplicazione tutta interna alla dinamica finanziaria, e la massa dei debiti che ciascuno Stato nazionale ha contratto per il funzionamento della propria economia. Per una serie di ragioni che sarebbe troppo lungo analizzare, la potenza dei creditori finanziari ha messo alle corde i debitori sovrani fino a costringerli a istituire parametri di controllo del debito pubblico: dalla istituzione del principio secondo cui la crescita del debito pubblico non può superare il 3% del Pil fino all’istituzione costituzionale del pareggio di bilancio.
Si è cercato di introdurre così un criterio di “stabilità” e rigidità nella contabilità nazionale mentre all’esterno imperversa l’instabilità del gioco d’azzardo. Come sottolinea Luciano Gallino, infatti, sulla scena mondiale 60 trilioni di dollari gestiti dagli investitori istituzionali si muovono nel mondo alla ricerca affannosa di rendimenti sempre crescenti.
A sviluppare questa logica dell’azzardo concorre in modo rilevante la rivoluzione informatica e la costituzione delle reti. La ricerca di maggiori rendimenti richiede infatti una grande mobilità del capitale finanziario. Gallino ha descritto in modo puntuale questa situazione della flessibilità illimitata del capitale finanziario. Nel contesto attuale, un gestore di fondi deve essere in grado di spostare milioni di dollari non appena sullo schermo del suo computer appare la possibilità di realizzare un immediato guadagno trasferendo capitale da un impiego a un altro: “un simile scambio si può fare ormai in pochi secondi”, anzi in millesimi di secondo se il computer è in grado di valutare automaticamente una nuova opportunità di guadagno. Come è noto, infatti, le transizioni finanziarie oggi sono quasi totalmente automatizzate, di conseguenza, osserva ancora Gallino, l’enorme flessibilità del capitale che gira per le piazza finanziarie del mondo “ha trascinato con sé la necessità di imporre anche alla forza lavoro la massima flessibilità”. Il lavoro ha perso ogni significato e viene considerato ormai soltanto una voce di costi. La forza lavoro legata a produzione di beni o servizi che non offrono un rendimento adeguato ai fiumi di capitale sociale che circolano per il mondo viene abbandonata, sostituita, tagliata, ridotta.
La stabilità dunque di cui si parla a livello nazionale e comunitario dovrebbe consentire un rapporto di stretta correlazione tra la misura del debito e la crescita del Pil. Poiché, come è dimostrato da questi anni, la crescita del Pil è diventata sempre più improbabile, la stabilità viene perseguita sostanzialmente attraverso politiche di “austerità” che vanno dall’inasprimento fiscale sui redditi comunque legati al lavoro ai tagli contestuali della spesa sociale con lo smantellamento progressivo dello Stato sociale costruito nel secolo scorso. L’estrema flessibilità del lavoro, imposta dalla mobilità del capitale finanziario, determina così paura e incertezza, mentre si vuole rassicurare l’intera popolazione con la promessa che dopo l’austerità potrà ripartire una nuova economia produttiva. Come tutti hanno potuto costatare, non si riesce ad andare oltre la politica di austerità che anzi ha tendenzialmente esposto i paesi più deboli ai rischi di una vera e propria recessione senza una via d’uscita.
La stabilità nazionale, perseguita attraverso l’austerità, è servita solo a scaricare sul debito pubblico nazionale le continue difficoltà del sistema bancario, trasformando in pubblico un debito che è stato contratto da un soggetto privato e scaricando così sulla maggioranza dei cittadini i rischi eccessivi di istituzioni finanziarie nazionali che hanno partecipato allegramente al gioco d’azzardo. Paradossalmente, il perseguimento della stabilità attraverso l’austerità sul terreno della contabilità nazionale ha provocato un continuo stato di “emergenza” che concettualmente e praticamente contrasta con l’idea di stabilità economica. Tutte le politiche economiche adottate in questi ultimi anni in Europa e in Italia, sono state motivate dall’“emergenza” come continuo pericolo di un vero e proprio crollo dell’economia nazionale.
L’emergenza, come stato di eccezione permanente, invoca misure di intervento che trovano nell’eccezionalità della situazione la loro unica legittimazione. Lo stato di emergenza − come lo stato di eccezione − tendenzialmente sospende la democrazia e la coerenza formale dell’ordinamento giuridico. Il decisore che si trova ad assumere il ruolo di governo, per fronteggiare lo stato di eccezione deve essere sottratto ai limiti e ai vincoli delle procedure legali, svuotando di significato il ruolo dei Parlamenti e delle stesse istituzioni rappresentative. Eppure lo stato d’emergenza viene chiamato in causa come giustificazione delle misure di politiche economiche che dovrebbero realizzare la stabilità e una correlazione accettabile tra Pil e debito pubblico.
È paradossale che lo stato di eccezione venga invocato per imporre una stabilità “convenzionale” che in realtà trova la sua base teorica soltanto in una serie di assunti indimostrabili trasformati in un modello economico di calcolo del rapporto “ideale” tra una nozione astratta come quella di Pil e una nozione altrettanto astratta come quella di debito pubblico. Non c’è alcuna possibilità di analizzare i modi e le forma in cui viene prodotto il Pil né quale sia la composizione e la ragione del debito. Non ci vuole molto infatti a distinguere debiti contratti per attuare sprechi e distruzione di ricchezza e debiti contratti per finanziare la spesa sociale come la scuola e la sanità.
Resta il fatto che fino ad ora l’imposizione autoritativa del pareggio di bilancio e del patto di stabilità hanno prodotto principalmente disoccupazione, recessione e stagnazione. Ciò che il patto di stabilità implica in realtà è una politica di austerità a senso unico che tende a produrre conseguenze sociali disastrose con crescita della disoccupazione e drastica riduzione dei consumi. Una politica di austerità associata al patto di stabilità non può non implicare una “meccanica” riproduzione delle diseguaglianze sociali e il declino di ogni vera innovazione produttiva. La tanto declamata innovazione è praticamente irrealizzabile all’interno di un modello di austerità in cui non si entra nel merito della spesa pubblica e si sottraggono invece continuamente risorse alla ricerca scientifica e alla qualità della vita creando demotivazione in tutte le fasce giovanili della società.
Mentre il patto di stabilità evoca una sorta di gabbia rispetto a ogni dinamica socio-economica effettiva, il cambiamento per esser tale implica necessariamente una discontinuità con le politiche precedenti. Stabilità, emergenza e innovazione non rappresentano alcuna sintesi nel proporre una visione della vita collettiva ma un insieme contraddittorio che impedisce ogni seria diagnosi della realtà. La coppia stabilità-austerità non traduce nel nuovo linguaggio economico i dati reali del disastro di migliaia e migliaia di piccole e medie imprese né tanto meno lascia intendere come il mercato del lavoro sia diventato una vera e propria terra di nessuno dove vagano centinaia di migliaia di uomini e donne alla ricerca persino dei mezzi di sostentamento.
Stabilità e austerità hanno portato a una trasformazione totale del linguaggio con cui si rappresenta la condizione di chi lavora precariamente o di chi addirittura rimane senza lavoro. Se il lavoro è diventato ormai normalmente flessibile, tutti coloro che vengono a trovarsi fuori da questo inedito modo di impiegare la manodopera esistente vengono chiamati con una terminologia che non fa emergere la drammaticità della situazione: esodati o esuberi.
Ciò che sta diventando davvero stabile nella nostra società è l’assenza di lavoro e la paura di non farcela. A ben vedere dunque la stabilità è uno strumento apparentemente indolore per mantenere e accentuare le diseguaglianze e per determinare in definitiva una sorta di paralisi sociale in cui ciascuno è condannato a riprodurre soltanto la propria condizione di marginalità.