Non fatevi impressionare. Non si è mai vista una crisi di governo seria che vada in onda in diretta da Fabio Fazio, almeno fino a oggi. Il presidente Napolitano, poi, non manderà mai il Paese alle urne con questa legge elettorale, piuttosto si dimetterà, costringendo tutti a un supplemento di serietà. Inoltre, le condizioni e i numeri per un Letta-bis paiono già presenti sulla scena, con buona pace del Cavaliere che rischia di pagare molto caro il suo ultimo azzardo politico. Detto questo, la reazione del mercato di ieri deve farci pensare. Non tanto per i risultati che ha portato con sé, assolutamente preventivabili vista la situazione politica, ma quanto sulla sua natura tutta interna. Siamo sinceri: questa crisi nasce a tavolino, ha tempistiche precise e altrettanto precisi effetti collaterali. Quanto di ciò che sta accadendo abbia a che fare con refoli di interesse straniero non è dato sapersi, ma non ci vorrà molto per scoprirlo.
Certo, se i protagonisti di quanto sta succedendo pensano di essere furbi, si sbagliano: hanno lasciato talmente tanti indizi sul terreno da farsi scoprire anche dal commissario Lo Gatto. Partiamo dall’inizio. Che ieri mattina lo spread ci avrebbe regalato una fiammata, non ci voleva un genio dei mercati per predirlo. Il problema è che anche un bambino capisce che quella dinamica puzzava lontano un miglio, ovvero un grande istituto italiano costretto da obblighi europei a scaricare un po’ delle sue miliardarie detenzioni di debito pubblico, ha sfruttato l’occasione per alleggerire il bilancio senza farsi notare, tanto con quanto accaduto nel weekend anche mia nonna avrebbe messo in preventivo il differenziale in rialzo. C’è voluto infatti poco perché lo spread Btp/Bund trovasse la forza di reagire. Dopo che il differenziale di rendimento tra i decennali italiani e quelli tedeschi ha sfiorato quota 290 punti base in avvio di seduta, già a metà mattinata era calato a 273 punti base.
Perché? Primo, parte dell’allargamento dello spread era dovuta al roll del decennale di riferimento, che da ieri mattina è il marzo 2024, mentre fino a venerdì era il maggio 2023. Secondo, anche i sassi sanno due cose: primo, Giorgio Napolitano farà qualsiasi cosa pur di non sciogliere le Camere e indire le elezioni anticipate con l’attuale sistema elettorale, quindi i mercati scontano già l’ipotesi di un Letta-bis, visto anche l’atteggiamento dei tre ministri Pdl di fronte all’aut aut posto loro dal Cavaliere; secondo, la possibilità di una revisione al ribasso del rating da parte di Fitch può anche starci, visto che ha un giudizio di un notch più alto rispetto alle altre agenzie ma l’allarme downgrade che ha agitato i desk venerdì pomeriggio era tutto e solo strumentale a far alzare la tensione nei confronti del Pdl, affinché fosse chiaro a tutti che con il suo operato Silvio Berlusconi stava portandoci verso un nuovo, devastante taglio del giudizio di credito.
Nei rumors si parlava infatti di un taglio in area sub-investment, ovvero quel rating che obbliga per statuto fondi asiatici e statunitensi a vendere, non potendo detenere in portafoglio tali securities per la sicurezza dei clienti (sono fondi, non hedge funds): fosse stato davvero così, lo spread ieri mattina sarebbe stato a 400, ma qualche banca francese avrebbe chiuso per fallimento. Quindi, non scherziamo. L’attenzione delle agenzie di rating ce la siamo cercata noi, tanto che ieri pomeriggio la francese Fitch si è sentita in dovere di avvertirci che la situazione di instabilità politica in Italia mette a rischio il raggiungimento degli obiettivi fiscali e, di conseguenza, potrebbe portare l’agenzia ad abbassare il rating BBB+ assegnato al Paese. Olè, altro che carico da novanta di responsabilità da imputare a chi disturberà il manovratore di un Letta-bis. Peccato che dopo questa comunicazione, lo spread attorno alle 15 è sceso da 274 a 268 punti base.
Terzo fattore, a fine aprile Goldman Sachs raccomandò di andare long sul Btp decennale contro i pari scadenza francesi fino a uno spread di 221 punti base, livello che con la fiammata iniziale è stato rotto e può aver indotto qualcuno a chiudere la posizione: peccato che, nei fatti, gli spread italiani trattano già sopra i livelli fair di Goldman Sachs, circa 210 punti base. Ovvero, i fattori politici sono già incorporati, non servono le dirette da Fazio per drammatizzarli o renderli mediaticamente appetibili. Almeno per chi investe. Quarto e ultimo punto, ancorché il più importante: grazie a Draghi e ai suoi soldi a pioggia, circa due terzi dello stock di titoli pubblici italiani sono ora in mani domestiche, sostenute dall’attuale riallocazione degli investitori al dettaglio fuori dalla liquidità. Di fatto, l’Italia ha finanziato il deficit 2013 e c’è un importo limitato di bond in scadenza da qui alla fine dell’anno.
Ecco il punto nodale: si possono gestire crisi pilotate come queste soltanto perché i numeri lo consentono. Stando a dati di Bankitalia diffusi lo scorso luglio, alla fine del mese di aprile il debito italiano in mano estera era pari a 673,9 miliardi di euro dai 689,5 del mese di marzo, con acquisti nello stesso mese pari a 39,4 miliardi dai 40,5 del mese di marzo. Di più, nel giugno del 2011 gli investitori stranieri detenevano 813,5 miliardi di euro del nostro debito: insomma, il deleverage da paura per il debito eccessivo e la crisi dei periferici, di fatto c’è già stato. A fronte di quei 673,9 miliardi, però, ci sono 400 miliardi di euro di nostro debito pubblico in mano a banche italiane, frutto del carry trade di sostegno implicito nelle due aste Ltro e nel messaggio di Draghi, quel «farò tutto quanto necessario per salvare l’euro» tramutatosi nella certezza dell’esistenza di quel meccanismo mitologico conosciuto come Omt, il quale invece non solo non esiste ma facilmente verrà strozzato nella culla entro fine anno dalla Corte costituzionale tedesca.
Qui, sta il problema: per quanto i mercati faranno ancora finta di credere al bluff dell’Eurotower prima di andarlo a vedere? E a quel punto, o quando ci sarà la certezza che il momento si sta avvicinando, varrà come sempre la regola del “chi vende per primo, vende meglio”? La Bce continuerà a garantire affinché il mercato non abbia timore sul criterio valutativo mark-to-market del prezzo di quei bond nei bilanci delle banche italiane? Tutto sta nelle segrete carte dei nostri istituti: quanti dei bonds comprati con il badile per abbassare artificialmente lo spread sono a contabilizzati davvero a bilancio come “held to maturity”, ovvero come investimento che arrivi a scadenza e non come strumento speculativo da scaricare in ogni momento, quando crescono i timori?
Il mercato queste cose, a differenza nostra, le sa: e quindi, al momento più propizio, potrebbe testare davvero la minaccia di Draghi e allora saranno le nostre banche a metterci più o meno sul patibolo, a sacrificare azionisti e bonus sull’altare del cosiddetto bene comune. Il premier Letta ha detto che «pregare per l’Italia in questi prossimi tre giorni, è certamente utile»: alla luce della situazione, pare inquietante. Soprattutto se visto anche attraverso un’altra lente d’ingrandimento: vi pare una combinazione che nel pieno di una crisi di governo si compiano due atti epocali per l’economia e l’assetto dei poteri forti del Paese come la vendita di Telecom a Telefonica e l’addio di Enrico Cucchiani, amministratore delegato della principale banca italiana – per valore di assets – a causa della perdita della fiducia da parte degli azionisti, gli stessi che grazie a lui godono del titolo ai massimi da due anni? Anche in questo caso, come per il caso Telecom, tutto di colpo, di un botto, in cinque minuti e con il successore, Carlo Messina, subito operativo.
Cucchiani proveniva da Allianz Italia e la sua avventura è durata meno di due anni, il nuovo Ceo proviene da Banca dei Territori ma ha maturato la sua esperienza in Bnl e nel Banco Ambrosiano, prima di arrivare in Intesa nel 2008 col ruolo di direttore finanziario: buon lavoro e in bocca al lupo a lui. La domanda però resta: perché così di colpo, in piena crisi di governo e alla vigilia di due consigli molto delicati? Certo, il rapporto era logorato da tempo, ma cinque mesi fa gli azionisti avevano confermato Cucchiani ai vertici del gruppo, cosa è successo nel frattempo? Intesa, amici miei, non è solo una banca, è uno dei motori immobili di questo Paese, è stata dietro le avventure politiche più sciagurate – vedi Alitalia – ma è anche nel patto di sindacato di Rcs, editore del quotidiano che ha aperto le danze con l’intervista al ministro Saccomanni, è un cosiddetto potere forte.
Detto fatto, la notizia ha innescato la sell-off sul comparto bancario, quello che pesa maggiormente sul Ftse Mib, et voilà, la nostra Borsa è precipitata in profondo rosso. Non sarà che questa crisi sia l’alibi per dar vita a delle pulizie di primavera con largo anticipo, riassestando i gangli del potere senza dare troppo nell’occhio, presi come siamo a parlare di dimissioni in bianco, ricerche di fiducia alle Camere e quant’altro i tg ci propinano in queste ore? Se così fosse e spero lo sia per il bene del Paese, stiano attenti attori e comprimari della pantomima: le banche nostrane sono politicamente ricattabili e controllabili, quelle estere e il mercato in generale no. Se si sbaglia una mossa e si resta con il cerino in mano, stavolta sono guai davvero seri. E Draghi, purtroppo, non potrà proprio farci niente. Siamo soli, con un sistema bancario che detiene 400 miliardi di debito pubblico e i fucili degli investitori esteri puntati.
Coincidenza delle coincidenze, poi, proprio ieri Mediobanca Securities, la stessa entità che prima dell’estate dava sei mesi di tempo all’Italia prima di dover chiedere aiuto all’Ue, pubblicava un report politico-economico sul Bel Paese, con il quale i suoi esperti mettevano in guardia – stante l’attuale situazione e il rischio di stallo politico o nuove elezioni – da un possibile downgrade sovrano e consigliavano un piano di salvataggio. E dove veniva posto l’accento? La debolezza del settore bancario è ritenuta il principale rischio macroeconomico di ribasso, soprattutto a causa degli istituti medio-piccoli e delle popolari (ma guarda che caso, a Bankitalia saranno deliziati dell’analisi e dalla condanna a morte del voto capitario). Inoltre, requisiti di copertura più elevati, forte dipendenza dalle aste Ltro e dai titoli garantiti dallo Stato, aumento dei crediti in sofferenza nel 2014 con un picco previsto nel 2015, sono tutti motivi sulla base dei quali il Fmi ha attribuito un rischio di declassamento del rating del Paese nel medio termine, ricordava il report.
Nelle sue raccomandazioni, l’istituto di Washington – lo stesso che non ha azzeccato una singola previsione dall’inizio della crisi a oggi – ha suggerito l’utilizzo degli strumenti di sostegno dell’area euro: è la prima volta che un organismo di vigilanza sollecita esplicitamente l’Italia a prendere in considerazione un piano di salvataggio. E Letta è appena tornato dagli Usa, sempre per ricorrere alla categoria delle coincidenze. Insomma, parliamoci chiaro: il nostro governo ha già concordato un piano di salvataggio per l’Italia, ora si capisce la ragione reale della visita di Olli Rehn e con la minaccia del downgrade (che porterebbe con sé una sell-off obbligazionaria e maggiori requisiti di collaterale e haircut) e il paravento pubblico-mediatico della crisi di governo, vuole indorarci la pillola prima di spalancare le porte alla troika.
Le parole al riguardo pronunciate ieri da un governista doc come il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, non lasciano molto spazio all’immaginazione. Sappiatelo, le cose stanno così. Magari sarà per il nostro bene, ma il concetto stesso di sovranità è morto. Altro che dimissioni in bianco e ritiro dei ministri, sembra la versione italiana di “Wag the dog”. Scommettete che entro domani qualcuno da Bruxelles si premunirà di farci sapere che se le turbolenze politiche impediranno la presentazione della legge di bilancio 2014 alla Commissione europea entro il 15 ottobre o se l’Italia non rispetterà i criteri del Patto di Stabilità, la disponibilità di sostegno Ue, legata alla condizionalità dei programmi Esm e Omt, sarà meno probabile, sempre se richiesta? Eppure, alle 15.30 di ieri il nostro spread era tornato allo stesso livello della chiusura di venerdì, quindi qualcuno stava comprando: di cosa stiamo parlando, allora?
In compenso, avremo il contentino dall’Ue: si potrà utilizzare la nazionalizzazione di Mps per stampare un po’, come ai vecchi tempi. Tutto cambia, affinché nulla cambi.