Attenzione, sta per succedere qualcosa in Grecia. E temo non sarà qualcosa di gradevole. Tre giorni fa, infatti, il Wall Street Journal, quindi un quotidiano che non pubblica le cose a caso, ha sparato come un siluro i verbali della drammatica riunione del 9 maggio 2010 in cui il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha dato il via libera al primo piano di aiuti per il Paese ellenico. E cosa emerge da quelle minute? Ciò che diciamo da almeno tre anni: il salvataggio della Grecia, in realtà, è stato il salvataggio delle banche, specie quelle francesi e tedesche, piene fino al collo di titoli di Stato di Atene, cui è stato garantito il tempo per mettere in sicurezza i propri conti, a spese dei cittadini ellenici. I documenti, classificati come riservatissimi e segreti (e casualmente pubblicati solo oggi), parlano chiaro: più di quaranta paesi, tutti non europei e pari al 40% del board del Fondo, erano contrari al progetto messo sul tavolo dai vertici Fmi, poiché definito «ad altissimo rischio e concepito solo per salvare i creditori, nella gran parte banche del Vecchio continente e non la Grecia». Insomma, puro buon senso. Peccato che frau Merkel e il buon Sarkò, gli stessi che ridacchiavano di Berlusconi con postura da grandi statisti, non potevano permettersi di usare il buon senso, dovevano salvare le terga ai loro istituti di credito che negli anni si erano comportati come fondi speculativi e non banche commerciali, ammassando posizioni miliardarie sul lucroso, quanto rischioso, debito ellenico.



I critici sostenevano che le previsioni del Fmi erano sovrastimate e che Atene avrebbe pagato un costo salatissimo in termini di recessione e disoccupazione, ma Stati Uniti ed Europa, leggi Parigi e Berlino, tirarono dritto. Grazie a loro abbiamo buttato non vi dico dove 230 miliardi di prestiti, lasciando la Grecia a pezzi e con il tasso di disoccupazione più alto di sempre. In compenso, se l’obiettivo del piano era quello di consentire alle banche di ridurre la loro esposizione ad Atene, la missione è stata compiuta alla grande. All’epoca del meeting del Fmi, le banche francesi avevano in portafoglio 78,8 miliardi di titoli di Stato ellenici e quelle tedesche 45 (le nostre, quelle più massacrate dai bontemponi dell’Eba, solo 6,8). Pochi mesi dopo, questa bomba a orologeria era già ridotta di un quarto, con le banche tedesche che vendevano come se non ci fosse un domani alla Borsa di Stoccarda e i gonzi compravano, a un prezzo ancora più che interessante. Quando arrivò il momento dell’haircut, la loro esposizione era stata tagliata a un livello tale da garantire di poter gonfiare il petto verso il mercato, snocciolando perdite a bilancio più che limitate.



D’altronde, pochi giorni fa la stessa Christine Lagarde, numero uno del Fmi, in un’intervista alla Cnn ha ribadito che «sarebbe stato meglio ristrutturare il debito privato prima del marzo 2012, ma il rischio era di mettere ko tutta l’Europa». Leggi, le banche tedesche e francesi. Ora abbiamo la conferma, con tanto di timbro del Fmi, delle tesi che stiamo sostenendo da mesi e mesi. Adesso, però, tocca capire il cui prodest del timing di questa uscita, visto che dubito ci siano voluti oltre tre anni affinché qualche manina compiacente facesse uscire quelle minute dalla sede del Fmi a Washington. Io una mezza idea, ce l’ho.



Ricordate quando già la scorsa estate scrissi come istituzioni finanziarie stessero vendendo con il badile il bond decennale greco ristrutturato, spedendo il rendimento alle stelle e mandando il prezzo a flirtare con quota 50 centesimi sull’euro? Bene, temo che quei soggetti sapessero benissimo come stanno le cose in Grecia e come fossero andate durante quel meeting, probabilmente ora avevano bisogno che il mondo lo “scoprisse” dalle autorevoli colonne del Wall Street Journal (il Financial Times viene invece usato per attaccare Draghi). Per tre ragioni. Primo, le “vittime” del primo salvataggio greco, ovvero i creditori privati che hanno subito l’haircut sulle proprie detenzioni di debito ellenico, potrebbero ora dar vita a una class action, sia negli Usa che in Europa, dopo che un paio di mesi fa è stato siglato uno storico accordo tra due importanti studi legali statunitensi. Grant&Eisenhofer, leader nella tutela legale degli investitori Usa, ha infatti deciso un’alleanza con lo studio Kyros Law di Boston per aiutare gli investitori a trascinare in tribunali greci – ma anche americani – i responsabili delle loro perdite, legate interamente allo swap.

E non pare affatto una sparata, visto che la Kyros Law ha aperto un nuovo ufficio ad Atene che sta già prendendo visione e coordinando le richieste di risarcimento di migliaia di detentori obbligazionari ellenici, costretti a un haircut upfront del 53,5% sul loro investimento nel programma di ristrutturazione del debito greco detenuto da creditori privati nel 2012. E lo studio Grant&Eisenhofer non scherza quando si parla di tutela degli investitori, visto che costrinse con le sue battaglie legali a cospicui pagamenti prima la Shell – 500 milioni di dollari – per aver truccato al rialzo i dati delle riserve di petrolio e poi la Parmalat, recuperando per i truffati da Tanzi e soci 110 milioni di euro. Inoltre, l’associazione punta non solo a perseguire eventuali casi di vendita fraudolenta di bond governativi ma anche di altri strumenti finanziari, primi fra tutti i credit default swaps. Nel mirino di John Kyriakopoulos e dei suoi colleghi, anche l’asta obbligazionaria di titoli di Stato greci tenutasi alla fine di marzo 2010, proprio pochissimi giorni prima del drastico downgrade da parte delle agenzie di rating che fece precipitare la crisi. E in caso queste cause dovessero andare in porto, le banche greche si troverebbero a dover pagare cifre che potrebbero sballare i loro già deficitari bilanci.

Già, perché nel 2012 le sofferenze bancarie sono cresciute del 50% rispetto al dicembre 2011, salendo dal 16% al 24% per un totale di 55 miliardi di euro. Di per sé, una cifra già allarmante ma che diventa spaventosa se si tiene conto che i fondi per la ricapitalizzazione bancaria stanziati dal governo sono solo 50 miliardi di euro, ovvero c’è già un buco di 5 miliardi. E parliamo di dati di fine 2012, certamente peggiorati in questi otto mesi del 2013, visti la recessione e il tasso di disoccupazione cresciuti – e non di poco – da inizio anno. Ed ecco il secondo motivo, di cui vi ho parlato lunedì. Capitanati da John Paulson, un gruppo di agguerriti hedge funds statunitensi sta infatti per suonare la carica verso il sistema bancario ellenico e il loro interesse appare ricambiato dalle grandi banche, le quali stanno già operando una forte pressione lobbystica sul governo affinché prenda in considerazione un rapido processo di ri-privatizzazione del settore. Paulson ha confermato al Financial Times che il suo fondo, Paulson&Co, ha notevoli posizioni azionarie all’interno sia di Piraeus che di Alpha Bank, i due istituti che stanno emergendo in condizioni migliori dalla crisi. Ed è in buona compagnia, visto che al tavolo del grande casinò bancario greco siedono anche Baupost, Eaglevale, Dromeus Capital, Falcon Edge, York Capital e Och-Ziff, oltre a fondi unicamente orientati su posizioni long come Wellington Capital Group e Fidelity.

E che la torta faccia gola, lo si capisce dai numeri. Se il prezzo dei titoli di Alpha e Piraeus è salito solo dell’8% da quando i fondi Usa hanno cominciato a fare incetta, di fatto aumentando il capitale, i warrants tradati separatamente sono saliti rispettivamente dell’80% e di oltre il 100%. Questi warrants possono essere scambiati per azioni a un livello predeterminato e prima questo accade più rapidamente il controllo della banca passa dallo Stato al settore privato: «Sarebbe bello trovare il modo di accelerare ulteriormente la privatizzazione, visto che la domanda sta crescendo enormemente», ha dichiarato festante al Financial Times Vassilios Psaltis, direttore finanziario di Alpha. Un unico ostacolo per ora sta fermando questo processo, ovvero i prezzi di conversione ancora troppo alti per tentare gente scafata come i gestori di hedge funds: o si abbassano i trigger prices, oppure addio accelerazione tanto voluta e benedetta. Ma le norme contenute negli accordi di salvataggio della troika parlano chiaro e non sono negoziabili. Almeno, formalmente.

Ed ecco qui il terzo motivo. Alla Grecia non basterà un nuovo piano di aiuti, come confermato anche da Wolfgang Schaeuble, potrebbe esserci il rischio di una seconda ristrutturazione del debito, con ogni probabilità a metà del 2014. C’è quindi tempo per prepararsi a quell’evenienza, per tutti. Per l’Europa (leggi la Germania), lasciando la Grecia al suo destino senza sborsare altri soldi, per gli hedge funds, che vedranno le porte spalancate e lasceranno la baracca attraverso la più classica delle sliding doors un secondo prima della caduta, per gli studi legali che stanno già preparando una bella “operazione Argentina” attraverso le class action. E attenzione: tocca tenere d’occhio il livello del bond decennale ristrutturato da qui a Natale, i movimenti strani del prezzo potrebbero essere rivelatori.

Si potrebbero registrare rialzi, un ritorno dell’entusiasmo, magari grazie anche a straordinari dati macro impacchettati alla bisogna dal governo greco verso fine anno e per il 2014 o da qualche istituzione europea: a quel punto, potrebbe partire la macchina acchiappa-gonzi, chi ha paura di restare con il cerino in mano vende, con profitto, e scappa in anticipo. Qualcun’altro pagherà i costi. Per la seconda volta. Fra due o tre anni, forse, ce lo confermerà il Wall Street Journal.

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