La situazione di Alitalia-Cai è drammatica, nonostante le soluzioni dell’ultimo minuto. Il dramma che rischia di investire la quasi totalità degli addetti è già conosciuto ampiamente da chi ha vissuto l’altrettanto situazione critica del 2008. Traditi dalla politica e dai sindacati, molti dei lavoratori dell’ex compagnia di bandiera hanno pensato di unirsi e fondare un’associazione, chiamata Anelta (Associazione nazionale ex lavoratori del trasporto aereo) per tentare di difendersi nel mare delle promesse mancate, degli accordi mai rispettati o che si potrebbero definire scandalosi. Abbiamo quindi intervistato il Presidente di Anelta, Mario Canale, ex capo cabina Alitalia.
Com’è nata Anelta?
Era il lontano 2008 e molti colleghi ricevettero la notizia “di messa in cassa integrazione”: disorientati, spaventati, arrabbiati, cercavano di districarsi tra burocrazia e prospettive di lavoro. La convinzione di non essere ancora esuberi sociali, accompagnata dalla volontà di reagire ai torti subiti, metteva insieme un gruppo di colleghi, che animati da intenti solidaristici costituiva l’associazione Anelta, con lo scopo di supportare, aiutare e assistere i colleghi senza arrendersi a un destino che altri avevano scritto.
Di che è la colpa di quanto accaduto nel 2008?
Il sindacato, così come i vertici dell’azienda, la politica e perfino i lavoratori sono corresponsabili della morte di Alitalia. Certamente la distribuzione delle responsabilità non può essere uguale per tutti. La politica per anni ha assoggettato le strategie aziendali a fini elettoralistici (vedi hub Malpensa), i vertici Alitalia – strapagati rispetto ai loro omologhi europei – non solo hanno assecondato la politica in piani e progetti a dir poco fantasiosi, ma hanno continuato le loro lotte intestine, distruggendo, specie negli ultimi anni, quell’orgoglioso senso di appartenenza aziendale che ha fatto di Alitalia una delle compagnie più prestigiose del secolo scorso – piloti contro assistenti di volo, personale di terra contro naviganti, accorpamenti di aziende, divisioni e creazioni di altre compagnie (vedi Team) che spariscono in pochi anni, creando un mondo di ex (ex Ati, ex Team, ex Ar, ecc.) che ha corroso l’unità dei lavoratori.
E i sindacati?
A fronte di un contratto di lavoro che recuperava produttività, abbassando notevolmente il costo lavoro, assistevano inermi alla pubblicazione di semestrali che vedevano aumentare il passivo della compagnia. Si sono poi spaccati, gettando al vento 4 anni di sacrificio fatto dai dipendenti. Le organizzazioni sindacali, abilissime nelle guerre intestine combattute molto spesso per acquisire proseliti, si sono distinte per numero e diversità di vedute; all’interno del panorama sindacale, quindi, si registravano tutte le posizioni, da quelle più estreme a quelle più moderate. Alitalia perdeva 2 milioni di euro al giorno, l’ultimo contratto di lavoro era stato “lacrime e sangue” e negli ultimi 4 anni di vita aziendale non c’è stata nessuna azione unitaria atta a far capire al Paese e ai lavoratori dove conduceva la strada intrapresa. Ovviamente anche in questo caso si potrebbero addebitare comportamenti e responsabilità non in modo equanime, ma ritorneremmo nell’eterna dialettica intersindacale: i fatti dicono che chi conduceva la compagnia di bandiera (management e politica) e chi doveva sorvegliare e controllare il loro operato (sindacati e lavoratori) sono responsabili della fine aziendale; un’idea la si può avere andando a riguardare gli atteggiamenti, le dichiarazioni e le posizioni delle Parti sociali a seguito dell’offerta di acquisto da parte di Air France.
Cos’è successo dopo il fatidico 2008? Gli impegni assunti dallo Stato e da Cai sono stati rispettati?
Gli impegni assunti da Cai negli accordi siglati nelle sedi istituzionali, nel 2008, erano intenzionalmente poco stringenti sui capitoli più importanti per i lavoratori e, nonostante questa enorme discrezionalità, Cai in molti casi ha disatteso le clausole sottoscritte negli accordi stessi, anche perché nulla di efficace è mai stato fatto per arginare la disinvoltura con la quale questa azienda applica le intese sottoscritte.
Chi avrebbe dovuto “sorvegliare” la situazione?
I contraenti degli accordi – nel nostro caso le istituzioni nelle figure dei ministeri firmatari delle intese (siglate nelle sedi istituzionale) – e ovviamente le organizzazioni sindacali. Com’è noto le istituzioni, nei loro vari avvicendamenti ai vertici, si sono disinteressate del problema Alitalia, tranne farci i conti quando gli stessi assumevano rilevanza nazionale (vedasi caso esodati). I sindacati, non riuscendo a saldare le categorie dei cassaintegrati con i lavoratori Cai, hanno perso quel poco potere contrattuale che gli avrebbe permesso di tentare qualcosa di tangibile. Cai quindi va e andrà avanti per la sua strada forte della situazione congiunturale nazionale e della crisi aziendale – chi darebbe priorità al rispetto degli accordi (2008) a fronte della possibile perdita di migliaia di posti di lavoro? Un film già visto che rischia di diventare una saga con molti episodi. Volutamente ometto di specificare e puntualizzare quali sono, secondo me, le clausole non rispettate dallo Stato e da Cai per non anticipare le tesi che porteremo in Corte di giustizia europea con la nostra class action.
Perché avete deciso di intraprendere questa strada?
Le ragioni della class action sono molteplici: la voglia di combattere con armi efficaci sfidando istituzioni e politica sul loro terreno, ma anche sapendo che spesso nel nostro Paese la fretta e la “ragion di Stato” fanno commettere non pochi errori ai superburocrati di turno; la non accettazione dell’epilogo Alitalia che è sfociata, dopo l’attenta analisi, nell’azione legale collettiva; il tentativo di riunire gli ex lavoratori della compagnia in un percorso che vede la condivisione della meta non solo come risarcimento economico; accendere un faro mediatico sulla vicenda Alitalia e sui problemi che ha lasciato.
A che cosa si riferisce in particolare?
Pensiamo a quanti colleghi non potendo usufruire delle clausole di “salvaguardia”, perché ritenuti giovani, si troveranno a 50 anni e più, senza lavoro e senza pensione. C’è inoltre la speranza che si possa, anche a beneficio delle nuove generazioni, avere ragione quando politica e affari convergono sovvertendo i principi che sovraintendono le norme giuridiche. In pratica, è stata presa un’azienda e: la si è amministrata modo fallimentare; la si è dismessa creandone un’altra ad hoc dove regole e assunzioni sono scritte prima del suo varo (assumo chi voglio e alle condizioni che prestabilisco); sono state incassate anche importanti agevolazioni sui costi previdenziali del personale; sono stati messi a tacere i lavoratori con più anzianità aziendale con 7 anni di ammortizzatori sociali, in modo da attutire l’impatto conflittuale (purtroppo non i risvolti sociali); è stata messa l’etichetta di “azione patriottica”. Dopo tutto questo, il gioco è fatto: i principi ispiratori dei codici degli Stati membri della Comunità europea su mercato, lavoro e concorrenza diventano favole per ragazzi.
Si dice che gli ex cassintegrati Alitalia abbiano goduto di diverse condizioni privilegiate rispetto ai comuni lavoratori nelle stesse sfortunate condizioni…
Alla fine del 2008 il mondo di “quelli che contano”, e che forse avevano già da tempo deciso la fine di Alitalia, sentenziò la chiusura della compagnia (dichiarazione di insolvenza inizio settembre 2008 e dismissione del certificato di operatore aeronautico 12 gennaio 2009). Chiunque si sia approcciato a questa vicenda sa bene che il nodo principale e prioritario da risolvere – si era in campagna elettorale – era l’impatto sociale delle migliaia di posti di lavoro che si sarebbero persi. Quindi era necessario evitare a tutti i costi che la vertenza prendesse derive conflittuali di massa. Cosa uscì allora dal cilindro della politica italiana al posto del coniglio? Una leggina, la 166, che sistemava tutto: la cassa integrazione venne portata a 4 anni, cui si aggiunsero 3 anni di mobilità. Sistemato il “quando”, si mise mano al “quanto”, implementando il fondo Fsta finanziato da una tassa sui biglietti aerei che avrebbe dato un’integrazione salariale pari all’80% di quanto percepito nell’ultimo anno. A questo punto si poteva procedere a proprio piacimento, mandare a casa i lavoratori più anziani, che a queste condizioni non avrebbero protestato più di tanto, selezionare il personale “migliore” per le assunzioni, avere 300 milioni di “prestito ponte”, comprare AirOne, chiamare i patrioti per affidargli la parte di azienda al netto dell’indebitamento e vincere le elezioni politiche. Il resto è noto. A fronte di tutto questo, i cassaintegrati Alitalia più che privilegiati sono stati merce di scambio politico-sociale.
In che senso?
Gli “esuberi” sono stati mandati a casa (dopo 30 anni di lavoro) con una mail di comunicazione (un freddo e anonimo documento di poche righe). Nessuno si è interessato di capire che cosa significasse perdere il lavoro, essere spediti nei gironi infernali della burocrazia italiana, vivere storie di solitudine, di depressioni, essere considerati privilegiati anche se i primi pagamenti sono arrivati dopo tre mesi dalla chiusura aziendale. La continuità nelle perdite della vecchia e nuova Alitalia, nonostante il notevole abbassamento del costo del lavoro e le agevolazioni fiscali, dimostra come la parola “privilegiati” viene usata solo per avere risonanza mediatica.
(Guido Gazzoli)