Dunque, tra una settimana esatta sarà passato un mese dal voto politico in Germania. E i nostri stabilissimi partner europei, quelli che giustamente fustigano il bipolarismo farlocco e i bizantismi della nostra politica, a che punto sono? Fermi. Addirittura, domenica, nel corso di un approfondimento politico sulla tv tedesca, si parlava di ipotesi decisamente azzardate, sintomo che l’idea di Grosse Koalition tra Spd e Cdu è già tramontata miseramente. Qualcuno azzardava un possibile esecutivo nero-verde, ovvero Cdu e Verdi (osteggiato però dai gemelli bavaresi della Csu), mentre altri ventilavano addirittura l’ipotesi di una Cdu all’opposizione, con il tentativo di dar vita a un governo rosso-rosso-verde, ovvero Spd più Linke più Verdi. Io non ci credo, soprattutto a questa seconda possibilità e continuo a pensare che la Merkel, con il passare dei giorni, sia tentata da un ritorno al voto entro fine anno. Anche perché, entro quella data, molte cose saranno accadute o saranno potute accadere.



Primo, si sarà giunti a un epilogo, qualsiasi esso sia, nella disputa sul default statunitense e sullo shutdown federale. Secondo, la Fed avrà fatto capire qualcosa di più rispetto alle sue reali intenzioni sul “tapering” del programma di stimolo. Terzo, la troika avrà emesso il suo verdetto sulla Grecia. Quarto, la Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe si sarà pronunciata sulla liceità del programma di acquisto obbligazionario europeo Omt. Quinto, la Bce avrà iniziato il suo ruolo di supervisione sul settore bancario europeo, in attesa degli stress test della prossima primavera. Insomma, dei bei nodi che saranno venuti al pettine. Almeno formalmente dovrebbe essere così.



Nel frattempo, però, l’impasse politica tedesca sta bloccando ogni possibile decisione rispetto al tema, non più derogabile, dell’unione bancaria in seno all’Ue, come ha plasticamente dimostrato ieri la riunione dei 17 ministri delle Finanze riuniti in Lussemburgo, l’Eurogruppo. Lo aveva confermato prima ancora dell’inizio del vertice, Chris Scicluna, capo del centro ricerche alla Daiwa Capital Markets, a detta del quale «una ragione dell’attuale inerzia politica nell’area euro è, ovviamente, il vuoto di potere politico in Germania».

Ora, la questione non è affatto di poco conto, poiché il percorso che dovrebbe portare alla cosiddetta unione bancaria è composto da tre step, attualmente lettera morta. Primo, per non far pagare il conto di fallimenti o ricapitalizzazioni bancarie agli Stati, spesso già indebitatissimi, occorre creare un sistema che sposti la supervisione del settore finanziario a livello europeo, ovvero il trasferimento alla Bce di questo compito atteso a breve in vista degli stress test ma che ufficialmente avverrà nell’autunno del prossimo anno con il nome di Single Supervisory Mechanism. La Germania, per bocca del capo della Bundesbank, Jens Weidmann, ha già detto però che questo mandato deve essere temporaneo, poiché potrebbe creare conflitti d’interesse in seno all’Eurotower e si è pronunciato a favore della creazione di un organismo indipendente.



Secondo step, uno schema comune di assicurazione sui depositi per proteggere i risparmi dei cittadini-contribuenti. Anche qui, lettera morta e l’enorme timore, da parte mia, che questo servirà unicamente per rendere automatico il “modello Cipro” nei casi di insolvenza bancaria, ovvero pagano obbligazionisti, azionisti e correntisti sopra un certo livello. Terzo step, la creazione di un’autorità unica con il potere di intervenire sulle banche in difficoltà nell’eurozona attraverso il cosiddetto Single Resolution Mechanism (Srm), un passo fondamentale che però è già andato a incagliarsi contro il no proprio della Germania, a detta della quale la creazione di un tale ente comporterebbe la completa rinegoziazione dei trattati fondativi dell’Ue. In parole povere, da quando hanno preso atto che Target2 non è un bancomat a flusso continuo che non contempla rischi ma un meccanismo che può portare a perdite, anche serie per la banca centrale (essendo la Bundesbank esposta per quasi 600 miliardi, c’è poco da riderci su), i tedeschi stanno dicendo pregiudizialmente no a tutto ciò che può essere visto e vissuto dai loro connazionali come il pagamento del conto per gli errori di qualcun’altro.

Michala Marcussen di Societe Generale conferma che «stante lo stallo politico, nessuna importante decisione verrà presa in ambito europeo prima che la Germania abbia un governo in carica. Ma la questione dell’Srm è dirimente, così come l’intera unione bancaria. Il ritardo al riguardo può avere conseguenze? Certo! Il mondo è troppo occupato a seguire quanto accade a Washington, riempiendo giornali e telegiornali, ma gli ultimi, deludenti sviluppi nell’Ue sul tema dell’unione bancaria meritano attenzione. L’Srm è strumento fondamentale per tagliare il cordone ombelicale funesto tra banche europei e debiti sovrani. Senza questo, i premi di rischio sui governativi all’interno dei costi per il finanziamento bancario continueranno a zavorrare qualsiasi ipotesi di ritorno alla crescita economica per i paesi europei più in difficoltà». Per l’analista di Ubs, Paul Donovan, «vista l’incertezza economica in America, l’unione bancaria diviene argomento di ancor maggiore importanza. Detto questo, dall’Eurogruppo non mi attendo molto, nonostante alcuni progressi in tema di unione bancaria potrebbero essere vitali affinché l’eurozona si protegga da un potenziale fallout della situazione statunitense».

Ora, mi chiedo e vi chiedo: ma il primo e più potente fustigatore dell’abbraccio mortale tra banche e obbligazioni sovrane non è stato proprio Jens Weidmann, il capo della Bundesbank, la stessa che ora si oppone alla nascita dell’Srm, ovvero lo strumento che dovrebbe spezzare ed evitare che quel cordone ombelicale si riformi, perché violerebbe i Trattati? Lo stesso ministro Saccomanni, che ha partecipato per l’Italia alla riunione dei ministri delle Finanze della zona euro, ha toccato l’argomento, nonostante il punto nodale fosse l’entità delle possibili perdite quest’anno per le banche italiane e spagnole. Per Saccomanni, «non c’è un problema di vulnerabilità», ma si prospettano due grandi sfide: disinnescare appunto la connessione tra rischio sovrano e rischio del credito attraverso la vigilanza Ue e ridurre il credito deteriorato tramite una ripresa dell’economia. Inoltre, separatamente, il governo italiano dovrebbe approvare proprio oggi un decreto che riduce da 18 a 5 anni il periodo per la deducibilità delle rettifiche su crediti eccedenti lo 0,3% degli impieghi. Non è ancora chiaro se la deducibilità si applicherà alle perdite sui nuovi crediti originati a partire dal 2013 oppure anche sullo stock di quelli esistenti, ma, se approvata, la norma non dovrebbe avere impatti diretti immediati significativi sul Roe in quanto, anche con il regime attuale, si generano crediti per imposte differite attive che sterilizzano l’effetto dell’impossibilità di dedurre integralmente le maggiori rettifiche rispetto al limite dello 0,3%.

Insomma, un qualcosa di positivo per il sistema bancario italiano – anche se conviene aspettare e leggere bene cosa conterrà il provvedimento – e finalmente un passo verso la trattazione seria, da parte di un governo, della questione madre: le asimmetrie delle regole tra Italia e altri paesi. Per quanto, quindi, dovremo pagare il conto dell’inazione politica tedesca in ambito europeo? Perché nessuno ha il coraggio di alzare la voce con la Merkel, dicendo chiaro e tondo che le sue beghe politiche non possono riguardare tutta l’Europa? A noi viene ripetuto ogni piè sospinto che la nostra instabilità genere problemi per l’intera Ue: nessuno ha gli attributi necessari per dire lo stesso alle sentinelle d’Europa? E poi, tornando a Jens Weidmann, se il rischio derivante dall’eccesso di detenzioni obbligazionarie sovrane da parte degli istituti di credito è così grave – e lo penso anch’io – non è forse il caso di modificare quei Trattati? E in fretta, anche?

Oppure si teme che la supervisione unica porti anche un’unificazione dei criteri contabili per le banche dell’Unione, un qualcosa che potrebbe danneggiare, magari, il calcolo un po’ allegro dell’esposizione ai derivati di Deutsche Bank? O, magari, gettare nuova luce sul salvataggio delle banche dei Lander e di Commerzbank? Oppure ancora, qualcuno sta volutamente perdendo tempo, tanto per creare un po’ di nervosismo e instabilità in un momento in cui il cash-flow sull’Italia, sia sull’azionario che sull’obbligazionario che sugli immobili – dovuto alla ricollocazione di portafogli d’investimenti che fuggono da mercati emergenti e Usa – sta facendo erroneamente pensare che il peggio sia passato e non ci sia tutta questa urgenza di procedere con riforme e integrazioni?

Attenzione, qualcosa sta cominciando davvero a scricchiolare in Europa. Non a caso, alle elezioni locali in Francia questo fine settimana ha vinto il Front National (e cosa pensi Marine Le Pen su Europa e soprattutto euro lo sapete meglio di me). Le intenzioni di voto, a livello nazionale, parlano del partito di Le Pen al primo posto con il 23%, mentre Hollande è in caduta libera (22% di consensi), l’Ump è tentato di riesumare la salma politica di Nicolas Sarkozy e l’unico membro socialista che piace ai francesi è il ministro degli Interni, Manuel Valls, che parla dichiaratamente un linguaggio di destra e tre giorni fa è stato denunciato per incitamento all’odio da un movimento anti-razzista dopo la sua proposta di cacciare tutti i rom dalla Francia. Insomma, l’asse renano è morto, la Merkel non può più contare, almeno nell’immediato, negli scendiletto d’Oltralpe per dettare legge senza confronto. Quindi è più sola, più vulnerabile ma per questo più politicamente pericolosa, vista anche l’impasse interna. Andreotti diceva che a pensare male si fa peccato ma ci si azzecca quasi sempre. Lo ripeto, attenti alle mosse dei tedeschi.

 

P.S.: In compenso, c’è qualcuno che fa parte dell’Ue solo da poco più di tre mesi e già è costretto a porsi delle domande. Si tratta della Croazia, entrata nell’Unione il 1 luglio scorso e che da allora ha conosciuto un calo dell’export dell’11% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Stando a quanto riportato da Presseurop, citando il quotidiano croato Poslovni Dnevnik, il calo delle esportazioni solo nel mese di agosto è stato del 19%, mentre nei primi otto mesi di quest’anno la diminuzione rispetto al 2012 è stata del 6,3%. A cosa è dovuto questo risultato? Lo dice lo stesso quotidiano croato: «L’accesso nell’Ue ha esposto la Croazia a una molto maggiore competizione internazionale e alla perdita dei privilegi derivanti dall’appartenenza al Central European Free Trade Agreement (Cefta)». E con la Slovenia che sta raggiungendo il punto di non ritorno, l’Est potrebbe essere il nuovo fronte caldo di un’eurozona che pare tenuta insieme con il nastro adesivo.