È la finanziaria dei miracoli: come si fa a ridurre le imposte senza veri tagli alla spesa? Come si fa a centrare il 2,5% di deficit sul Pil partendo da ben oltre il 3% e con una crescita dello zero virgola qualcosa? Come si fa a uscire dalla recessione senza una spinta della domanda interna? Infine, come presentare una manovra da 11,5 miliardi con una copertura di soli 8,6? Mistero. A meno che non ci sia dell’altro. C’è e si chiama Unione europea. Enrico Letta ha spiegato che i 2,9 miliardi mancanti sono la conseguenza positiva di aver rispettato i parametri: “In tanti hanno detto al Governo e al sottoscritto sforate il 3% come hanno fatto altri, ma noi abbiamo mantenuto l’impegno con Bruxelles, e oggi abbiamo un premio: per la prima volta la legge di stabilità non comincia con una sforbiciata di tagli o nuove tasse che servono per Bruxelles come fatto sempre fino ad adesso”. E questo perché l’Ue adesso è disposta a chiudere un occhio, anzi di più.



C’è chi lo chiama effetto Monti, chi dà il merito a Saccomanni e alla sua paziente resistenza a chi lo tirava per la giacca, ma un terzo delle risorse provengono proprio da questa tenuta. Il che solleva anche un gran punto interrogativo. Che cosa succede se i tassi d’interesse tornano ad aumentare? Perché i risparmi provengono proprio da qui, dal calo degli interessi sul debito.



Il conto è presto fatto: 3,5 miliardi di euro dovrebbero arrivare da tagli al bilancio dello Stato, e da una riduzione per circa 1 miliardo alla spesa delle Regioni. Altri 3,2 miliardi saranno il frutto di dismissioni e vendita di immobili (500 milioni), della rivalutazione di cespiti e partecipazioni (500 milioni) e della revisione del trattamento delle perdite di banche, assicurazioni e altri intermediari (conteggiati 2,2 miliardi di euro). Il Governo conta di spuntare 1,9 miliardi da interventi fiscali di vario genere: dall’incremento dell’aliquota del bollo sulle attività finanziarie (900 milioni) al visto di conformità per le compensazioni sulle imposte dirette (460 milioni), passando dalla riduzione delle spese fiscali grazie all’introduzione di interventi selettivi sulle agevolazioni fiscali da definire entro gennaio 2014 (500 milioni). Risultato: 8,6 miliardi di euro.



Così il governo Letta scontenta un po’ tutti. Alla Confindustria non basta: così s’allontana persino la ripresina, dice Giorgio Squinzi. Nel Pdl c’è chi sente puzza di bruciato con la nuova imposta sui servizi (che in realtà è sempre sulla casa). Susanna Camusso, segretario della Cgil, sostiene che è la fotocopia delle manovre precedenti, quelle dettate da Mario Draghi e dalla Bce. Il Pd sconta la pressione degli amministratori locali ai quali non basta l’allentamento del patto di stabilità interno. Mentre in molti già lanciano l’anatema contro il ritorno dei tagli lineari. In parlamento si prepara l’assalto alla diligenza. La legge di stabilità è diventata di nuovo una finanziaria con l’aggravante che, a forza di rinviare, tutto si concentra su questo appuntamento che diventa l’ordalia del governo.

L’intervento chiave riguarda il fisco. Il governo promette una riduzione di 5 miliardi per i lavoratori e 5,6 per le imprese in tre anni. Non molto, ricorda l’operazione Prodi del 2006-2007 che non ha dato grandi benefici. Nel 2014 il sollievo sarà di 2,5 miliardi, davvero troppo poco per dare un impulso alla domanda interna e risollevare la congiuntura.

Nella colonna del dare, i contribuenti trovano il Trise, tributo sui servizi comunali con una prima aliquota dell’uno per mille, diviso in due – il Tari (i rifiuti) e il Tasi (il rimborso dei servizi indivisibili offerti dai comuni) – e sostituisce la Tares. Non esce di scena l’Imu tranne che sulle prime case non di lusso. E tra tutti questi tributi si stabilisce un intreccio cacofonico del quale la gente sente solo una nota: si pagherà di più. E chi paga? Tutti, anche gli inquilini. Ma il pagamento non sembra commisurato ai servizi forniti, ciò rende l’imposizione poco trasparente e non impostata verso un aumento della produttività dei servizi comunali. Insomma, la logica opposta a quella annunciata dal governo. Dalle rendite finanziarie arrivano solo 900 milioni, anche se è un bene che siano state scartate soluzioni punitive dei titoli pubblici che, con il debito oltre i duemila miliardi, sono prodotti fragili, da maneggiare con cura.

La pressione fiscale si ridurrà di un punto in tre anni, dal 44,3% al 43,3%. Per la prima volta in tanto tempo un segno meno. Ma con prudenza. Avanti con giudizio, sembra che Saccomanni sia andato a lezione da don Ferrante. Si parla di aggredire i capitali esportati illegalmente, ma è l’eterno accordo con la Svizzera destinato a rivelarsi un’illusione.

Da lato della spesa c’è davvero poco. Un miliardo in uscita per l’allentamento del patto di stabilità interno: servirà per i pagamenti in conto capitale. All’ultimo momento la ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha bloccato 2,6 miliardi di tagli perché avrebbero messo in difficoltà, a suo parere, ben 15 regioni. È uscita trionfante dal Consiglio dei ministri, ma proprio la sanità è una voce pressoché incontrollabile dalla quale si potrebbe risparmiare molto senza ridurre l’assistenza, anzi talvolta migliorando le prestazioni. Ma tutto questo viene rinviato alla spending review: come la mitica araba fenice che ci sia ciascun lo dice dove sia nessun lo sa. Adesso è affidata a un ennesimo commissario con ampi poteri tranne quelli di usare il bisturi. Vedremo se Carlo Cottarelli farà quel che non è stato consentito né a Piero Giarda, né a Sandro Bondi, un grande esperto il primo, un vero tagliatore di teste il secondo.

Nessun cambiamento sostanziale nemmeno sul capitolo lavoro. Viene confermato il blocco dei contratti e del turnover nel pubblico impiego e sarà rifinanziata la cassa integrazione in deroga. Si va avanti anno dopo anno proprio in due campi dove ci sarebbe bisogno di intervenire a fondo con riforme serie, ma questo non è un governo riformista, meno che mai sul mercato del lavoro, dove la Cgil ha messo un veto: chi tocca muore.

Nell’insieme si è preferita una finanziaria a spizzichi e bocconi. L’impostazione è esattamente contraria a quella suggerita da Francesco Giavazzi e Alberto Alesina. I due economisti, avevano chiesto “più coraggio” e di essere “meno democristani”. Dunque fare le riforme necessarie e presentarsi a Bruxelles per negoziare. “Ci sono due Italie – hanno scritto su Il Corriere della Sera – Una fatta di imprese produttive, che esportano, e che si sono ben adattate all’euro. Altre che non riescono a farlo, si sono rinchiuse nel mercato domestico, non si rinnovano a sufficienza e sopravvivono solo grazie a mille protezioni. Per ricominciare a crescere basterebbe spostare e riorganizzare le risorse in modo da allargare un po’ lo spazio occupato dalla prima. Ma bisogna poterlo fare, e per ciò è essenziale riformare un mercato del lavoro ingessato. Parliamo con chiarezza e credibilità all’Unione europea chiedendo di permetterci qualche anno di flessibilità sui vincoli fiscali per facilitare queste riforme e le riduzioni graduali di spesa che le devono accompagnare”.

Letta, al contrario, ha tenuto fermo il 3% e ha proceduto ad aggiustare un po’ qua un po’ là, senza avere le risorse per cambiare. E senza risorse niente coraggio. In cambio, al di là delle solite litanie sul sorvegliato speciale e l’occhiuto controllo di Bruxelles, ottiene dall’Ue un’apertura di credito ancor più ampia rispetto a Monti perché questo è comunque un governo politico uscito dalle elezioni. E nessuno vuole che venga minato: troppo pericolosa sarebbe per tutti l’instabilità dell’Italia. Dunque, meglio far finta di credere che i conti siano in ordine e che quei tre miliardi che mancano non siano scritti sull’acqua o meglio sulle nuvole, sperando che non diventino nembi di tempesta.